LA VOCE DI HIND RAJAB
La storia di una bimba palestinese di 6 anni rimasta nella macchina dove sono stati uccisi i suoi genitori. Espressione massima della capacità del cinema di scuoterci e farci riflettere. In Sala
Hind Rajab era una bambina di 6 anni che il 29 gennaio 2024 aveva chiamato la Mezzaluna rossa per chiedere aiuto. Mentre con i cugini e gli zii stava lasciando Gaza in ottemperanza a un ordine di Israele, la sua auto è stata colpita dall’esercito israeliano. Dopo una giornata di “prigionia” nell’auto, circondata dai corpi dei familiari, Hind viene uccisa insieme ai soccorritori accorsi in suo aiuto
Kaouther Ben Hania
Kaouther Ben Hania
Valori Educativi
Questo film non è solo una testimonianza, ma un grido che costringe lo spettatore a interrogarsi, a restare in ascolto, a non voltarsi altrove.
Pubblico
14+Presenza di scene intense e spaventose
Giudizio Artistico
La voce di Hind Rajab spinge il dispositivo filmico verso la massima concentrazione spaziale e sensoriale: quasi tutto il lungometraggio è ambientato in un’unica stanza, la sede della Mezzaluna rossa. – Leone d’argento alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia 2025. Film rappresentante la Tunisia nella corsa all’Oscar 2026 quale miglior film straniero.
Cast & Crew
Saja Kilani
Motaz Malhees
Regia
Kaouther Ben Hania
Sceneggiatura
Kaouther Ben Hania
Our Review

Ha fatto molto parlare di sé la regista tunisina Kaouther Ben Hania con il suo film La voce di Hind Rajab. Non solo per i ventiquattro minuti di applausi al termine della proiezione alla Mostra del cinema di Venezia, ma anche per il tipo di esperienza cinematografica portata in sala, in bilico tra documento, performance e riflessione collettiva.
Se la vicenda da cui trae ispirazione colpisce per la sua drammaticità, la vera forza del film risiede nelle scelte registiche e formali, che trasformano un fatto di cronaca in una potente opera di ascolto e di memoria. L’elemento di spicco è, naturalmente, quello che dà il titolo alla pellicola: la voce autentica della bambina registrata durante le chiamate alla Mezzaluna rossa. Non è una voce ricostruita né doppiata — il film, infatti, è proposto solo con sottotitoli — e proprio questa autenticità produce un effetto di verità difficile da sostenere emotivamente. Ogni parola, ogni silenzio, ogni respiro spezzato diventa parte integrante della messa in scena, come se l’audio reale fosse la colonna portante su cui Ben Hania costruisce la sua riflessione sul linguaggio e sulla rappresentazione del dolore.
La voce di Hind Rajab spinge il dispositivo filmico verso la massima concentrazione spaziale e sensoriale: quasi tutto il lungometraggio è ambientato in un’unica stanza, la sede della Mezzaluna rossa. Ciò che accade fuori, nei luoghi del conflitto, non viene mai mostrato. Lo spettatore può solo immaginarlo, evocato dalle parole che arrivano dal telefono. È un cinema dell’assenza, che sostituisce l’immagine con l’immaginazione, la visione con l’ascolto. In questo modo Ben Hania ribalta le convenzioni del cinema di guerra, trasformando la violenza in un’eco invisibile ma potentissima.
L’uso del suono e del silenzio diventa così centrale: non è semplice accompagnamento, ma vero linguaggio drammatico. I rumori lontani, le interruzioni della linea, i sospiri dei soccorritori costruiscono una tensione più efficace di qualunque scena d’azione. Persino la fotografia contribuisce a questo impianto minimale, quasi teatrale: la luce filtrata, i toni freddi e le ombre sul volto degli operatori trasmettono un senso di impotenza collettiva, mentre lo spettatore è chiamato a condividere lo stesso spazio emotivo.
A rendere l’opera ancora più complessa interviene l’inserimento di materiali d’archivio reali – fotografie e filmati originali – che Ben Hania integra con una precisione quasi chirurgica nel flusso narrativo. Questo innesto mette radicalmente in discussione il concetto stesso di documentario: La voce di Hind Rajab non è una mera ricostruzione dei fatti, ma un film-saggio che riflette sulla possibilità (e sul rischio) di rappresentare il dolore altrui. Il confine tra testimonianza e spettacolo diventa labile, e la regista lo attraversa con grande consapevolezza, lasciando allo spettatore la responsabilità del giudizio etico.
Da qui nasce una domanda inevitabile: fino a che punto è lecito mostrare la sofferenza reale? Anche quando l’intento è di denuncia, è giusto esporre la voce autentica di una bambina che muore? Ben Hania non offre risposte, ma invita a sostare in questo disagio, a farne parte integrante dell’esperienza visiva. È proprio questo gesto – il rifiuto della consolazione e dell’estetizzazione del dolore – che conferisce al film una potenza rara.
L’attualità dei fatti, infine, carica l’opera di una valenza politica evidente, ma mai didascalica: il contesto del conflitto israelo-palestinese non crea un’esclusività, ma anzi aiuta a rendersi conto che tutto questo succede in qualsiasi conflitto armato in corso in ogni angolo del mondo. C’è un paradosso di fondo che la regista mette a nudo: la violenza che ogni giorno entra nelle nostre case attraverso i notiziari sembra anestetizzarci, mentre nel momento in cui viene portata in un’opera d’arte, ci scuote e ci costringe a guardarla davvero. Il film, dunque, non è solo un racconto su Hind Rajab, ma una riflessione sull’immagine stessa, sulla capacità del cinema di farsi strumento etico e politico.
La voce di Hind Rajab è un film difficile da collocare, a metà tra il documentario e la performance, tra la denuncia e la poesia. Ma proprio questa indeterminatezza lo rende unico: un atto di ascolto radicale, un tentativo di dare forma alla memoria senza tradirla. Non è solo una testimonianza, ma un grido che costringe lo spettatore a interrogarsi, a restare in ascolto, a non voltarsi altrove
Autore: Francesco Marini
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