FAHRENHEIT 9/11 La temperatura a cui brucia la libertà

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Pubblico

16+

Per le molte scene prese dal vero di civili e militari feriti in guerra

Giudizio Artistico



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Michael Moore scopre le sue carte già dalle prime immagini  del film : il suo “avversario” è George W. Bush: è lui la causa principale di quello che è successo sia prima che dopo l’11 settembre: prima, perché ha trascurato i segnali di allarme che gli venivano forniti; dopo, perché ha cavalcato l’occasione per uscire dal grigiore della sua amministrazione proponendosi sulla scena mondiale come presidente-cowboy deciso a fare vendetta in nome degli americani
La prima parte ha i toni della satira politica: Bush ed i suoi più stretti collaboratori sono trasformati in caricature grazie ad un’abile scelta di spezzoni imbarazzanti ricavati da riprese televisive, con l’aiuto di alcuni trucchi cinematografici. Nella seconda parte, quando si parla della guerra in Irak, Moore cambia registro: gli intervistati diventano i giovani soldati che non capiscono perché siano tanto odiati, le madri americane che hanno perso un figlio o quelle irakene che si sono trovate la casa distrutta ed i figli in prigione.
Il film, premiato con la palma d’oro al festival di Cannes 2004 (il precedente “Bowling a Colombine” aveva vinto l’Oscar 2003),  non sembra un documentario, con quel di noioso che questa parola ci fa evocare; esso al contrario riesce a farci appassionare, arrivando dritto al sodo di ogni questione e sa premere il tasto, con un buon senso dello spettacolo,  sia del sorriso che della commozione. Fahrenheit 9/11  ci appare come una commedia con risvolti tragici dove il protagonista assoluto è George W. Bush nella parte di comico e Moore ne è la sua spalla.
Moore sa  utilizzare la cinepresa e gli spezzoni a sua disposizione con arguzia sardonica: basta poco per commutare una situazione seria in faceta: Bush, in un’intervista ufficiale dichiara  con tono serio che si vincerà la guerra ;  poi si volta (non sa che la telecamera è ancora accesa), imbraccia la mazza da golf e continua “..e adesso guardate che colpo!”. Bitney Spears davanti all’intervistatore afferma: “si, io ho fiducia  nel mio  presidente” ed intanto mastica del chewingum con l’aria di chi ha sparato la prima panzana che le è venuta in mente. Un venditore presenta con orgoglio un nuovo tipo di paracadute portatile che si indossa in 30 secondi (molto utile in questi anni difficili) ma mentre parla al pubblico, la dimostratrice dietro di lui si impiglia fra lacci e laccetti e a momenti cade.
Anche quando il film vira su temi seri, non possiamo dimenticare i volti dei soldati in missione in Irak: tutti sono incredibilmente giovani e come tanti loro coetanei, vanno in giro con l’auricolare infilato nell’orecchio  a sentire canzoni, anche adesso che debbono guidare un tank.. Dai discorsi davanti alla telecamera appaiono ragazzi semplici e con poca istruzione: ripetono slogan che qualcuno ha loro instillato ma la voce è dubbiosa,  sentono che la realtà che stanno vivendo  è più profonda, più complessa, più seria di quanto la loro  vita nella lontana America avesse fatto presagire.

Il lavoro di Moore è difficilmente decifrabile: non è un’indagine storica, con quel che di distacco dagli eventi questo comporta; non è un’inchiesta  giornalistica secondo la gloriosa tradizione americana, abituata a separare i fatti dalle opinioni; non costruisce un pamphlet politico perché non è la politica , lo scontro repubblicani-democratici, ciò che costituisce il principale interesse del regista (anche i democratici non ci fanno una bella figura); quello che spinge Moore a battersi con passione ha un nome ben preciso: si chiama Flint.
Flint nel Michigan, dove il regista ha passato la sua infanzia e per il quale ha realizzato il suo primo documentario-polemica: Roger & Me dove ci ha raccontato come la General Motors, chiudendo una fabbrica nella zona, aveva mandato a casa 30.000 operai della sua cittadina. Il suo cuore batte, la fiamma  della sua ispirazione si riscalda solo quando  può parlare dei suoi concittadini, dei ragazzi negri disoccupati che per guadagnare qualcosa accettano di andare in Irak o  della signora della porta accanto che espone orgogliosamente ogni giorno la bandiera americana ma poi si accascia dal dolore quando viene informata che suo figlio è morto in Irak..
Se Moore si accanisce tanto contro Bush o si angoscia per i giovani americani che vanno a morire in guerra, lo fa pensando a quel piccolo angolo  dell’ America povera. Sarebbe infatti un errore prendere seriamente le sue tesi politiche e gli stessi attacchi sferrati contro Bush; è noto che con un abile montaggio si può costruire qualunque verità ma anche quella esattamente contraria e che mille indizi non fanno una prova. Moore non è e non vuol essere obiettivo; va accettato per quello che è: un appassionato polemista che ricorda a noi tutti , sia a quelli che hanno le sue stesse idee  ma anche chi le ha completamente opposte,  di vigilare e   non intorpidire la propria coscienza ,preoccupandosi sopratutto  di chi è più debole ed indifeso.
Due sono, a mio avviso, i difetti del film: uno sfruttamento oltre il lecito della sofferenza altrui (la camera sta troppo addosso, senza mollare la presa, ad una madre che ha perso il figlio nella guerra irakena) ed una sbandata, proprio nel finale, verso la retorica populista; nel cinema le immagini sono già eloquenti di per sé e non occorre costruirci intorno della filosofia.

Autore: Franco Olearo

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