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Scene sensuali e di nudo

Giudizio Artistico



Il talento insuperabile di Rohmer sta tutto nel riuscire a trasformare situazioni che nelle mani di chiunque altro risulterebbero farsesche o volgari in un divertissement non privo di profondità..

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Per la sua ultima, deliziosa, pellicola, Eric Rohmer abbandona la contemporaneità e si immerge nell’ambiente naturale e insieme fantastico dei boschi di un’immaginaria Gallia tardoantica, ricreata dai versi del poeta seicentesco Honoré d’Urfé; in realtà resta fedele, nella sostanza e nello stile, ai temi che lo hanno reso grande, primo tra tutti quello della fedeltà amorosa, già centrale in pellicole come La mia notte con Maud o nel bellissimo Racconto d’inverno.

Gli amori di Astrea e Céladon sono l’equivalente transalpino di opere del barocco italiano come Il pastor fido o l’Aminta di Torquato Tasso, di cui condividono la sensualità pervasiva ma mai volgare e la più o meno esplicita impostazione intellettuale e filosofica, che il cineasta francese non fa nulla per nascondere o attenuare. Tra una canzone e una passeggiata tra i boschi, infatti, trovano agevolmente spazio dotte disquisizioni sulla natura dell’amore (in cui si confrontano l’impostazione platonica dei nostri protagonisti e quella più carnale e materialista di un altro pastore) e sulla natura sincretica dei santuari gallici (con una dimostrazione articolata del confluire delle divinità politeiste nel culto dell’unico vero dio e della sua madre vergine).

Il protagonista Céladon è l’eroe della fedeltà ad ogni costo e al di là di ogni calcolo e logica. Salvato dal un tentativo di suicidio (che ne riscatta, a sua insaputa, la buona fede agli occhi dell’amata) conquista suo malgrado il cuore di una delle sue salvatrice, ma, forte del suo amore, le resiste.

Liberato dalla sua prigione dorata grazie ad un travestimento e all’aiuto della bella e paziente Léonide, che gli offre la sua sincera amicizia, si dà ad un triste eremitaggio, da cui lo riscuote un druido, che mette le sue sofferenze d’amore al servizio della costruzione di un tempio silvestre che porterà il nome della divinità della giustizia da cui la sua amata prende il nome.

Fin qui la storia, pur nelle sue amabili assurdità (i protagonisti si aggirano per i boschi abbigliati proprio come in un quadro del Seicento e parlano tra loro in versi sciolti) procede per binari prevedibili. Ma prima della conclusione al povero e testardo Céladon toccherà pure camuffarsi da donna e solo in questo imbarazzante travestimento riuscirà a riconquistare le carezze dell’amata.

La messa in scena, soprattutto nel finale, strizza l’occhio alle spettatore nella sua palese sospensione dell’incredulità e sembra quasi di vedere gli altri personaggi condividere insieme al pubblico il divertimento per una finzione sempre più improbabile, che non ingannerebbe nessuno tranne colei a cui è rivolto.

Il talento insuperabile di Rohmer sta tutto nel riuscire a trasformare situazioni che nelle mani di chiunque altro risulterebbero farsesche o volgari in un divertissement non privo di profondità. L’assurdità del rivestirsi materiale dei due amanti con i rispettivi abiti, infatti, non fa che confermare, per contrasto, la verità più profonda della trasformazione di amante e oggetto amato enunciata in termini filosofici dall’inizio come culmine perfetto dell’amore spirituale.

Alla Mostra del Cinema di Venezia, dove è passato, leggero come il vento che percorre quasi ogni sua scena, il film di Rohmer è stato davvero una boccata d’aria fresca in mezzo a pellicole che hanno perso la capacità di raccontare l’amore fisico come espressione dell’amore spirituale e sanno solo mostrare il sesso come espressione di una necessità biologica e animale priva di gioia e di scopo. C’è voluto un vecchio maestro e una saggezza antica espressa in versi da due pastorelli per ricordarci che le cose non stanno affatto così.v

Autore: Franco Olearo

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