UN AFFARE DI FAMIGLIA

2018121 min14+  

In una baracca vivono cinque persone con relazioni simil-familiari, nel senso che non c’è fra tutti un vero legame naturale ma solo affettivo. C’è “la nonna” (Hatsue), “un padre” (Osamu), “una madre” (Nobuyo), la nipote maggiorenne di Hatsue (Aki) e due “figli” più piccoli: un maschio (Shota) e una bambina (Juri). In realtà Shota e Juri sono due trovatelli che Osamu ha addestrato a compiere furti nei supermercati per trovare sempre qualcosa da mangiare per la “famiglia”. Tutti hanno convenienza a vivere nella stessa baracca perché se Osamu procura loro da mangiare, la “nonna” Hatsue beneficia della pensione del marito morto...

Una famiglia del proletariato giapponese, molto unita,  vive di piccoli furti e imbrogli. Un racconto sulle debolezze umane con un piccolo riscatto finale


Valori Educativi



Il regista ci propone un’etica puramente individualista e utilitarista, chiusa all’interno di un micronucleo familiare. Per fortuna due personaggi riescono a riscattarsi

Pubblico

14+

Un scena con nudità. Comportamenti diseducativi

Giudizio Artistico



Kore-Eda sviluppa il racconto con una cura impeccabile nelle inquarature e nel dettagliare i rapporti fra i protagonisti. Palma d’Oro al Festival di Cannes 2018

Cast & Crew

Our Review

Quando lo spettatore inizia a seguire questa insolita, numerosa famiglia che riesce incredibilmente a vivere con serenità in spazi limitati fra mille oggetti distribuiti senza un ordine apparente (ma la nonna trova sempre tutto) cerca di comprendere  quale sia il messsaggio principale che il regista Kore-Eda ha voluto trasmetterci. E’ probabile che si stia assistendo a un film di denuncia sociale, un racconto realistico su come viva il proletariato giapponese (il padre Osamu fa l’operaio di cantiere su chiamata, la mamma Nobuio è una operaria-stiratrice in una ditta di pulizie, mentre la nipote Aki si presta a spogliarsi come ragazza di vetrina in un locale per soli uomini). Questa prima ipotesi interpretativa si eclissa rapidamente: man mano che scopriamo di trovarci di fronte a una famiglia più “virtuale” che reale, vengono alla mente altri film dell’autore che si era già interrogato su cosa voglia realmente dire essere padre, madre o figlio. Emblematico è stato Father and son dove uno scambio in culla di due neonati costringe due famiglie ad accogliere un ragazzo sconosciuto come il proprio figlio e a domandarsi se la paternità sia un fatto naturale o esclusivamente affettivo. Ritratto di famiglia con tempesta cerca di sondare la resistenza dei legami familiari anche quando si ha a che fare con un padre poco responsabile e con una coppia che si è irrimediabimente separata. Little Sister è invece, in modo più diretto, un sostegno al concetto di  famiglia allargata: due ragazze accolgono fra loro la sorellastra, frutto di una relazione del padre con una seconda moglie. Anche in quest’ultimo  Un affare di famiglia, la “madre” Nobuyo che, non ha potuto avere figli ma che alleva con amore i due trovatelli, si domanda: “si è madri solo perché si partorisce?”.

Eppure, il tema della famiglia, pur così importante per il regista,  non costituisce ancora l’essenza di questo film che affronta un tema di ben più ampio respiro, squisitamente etico.

La famiglia che ci viene presentata è incantevole: ognuno è gentile e comprensivo verso l’altro, scherzano serenamente quando si ritrovano tutti a tavola,  affrontano con serenità anche le sventure che vengono sempre compartecipate. In realtà è proprio l’appartenere a questa famiglia sui generis , accettare la sua micro-cultura, che costituisce un forte limite per i suoi componenti, che si sono costruiti un sistema di valori di loro esclusiva convenienza. Il “padre” Osamu non ha esitato  ad addestrare i due orfanelli a rubare, per il “bene della famiglia”; in fondo, spiega ai ragazzi: “le merci al supermercato non sono di nessuno”. Osamu e Nobuyo hanno preso in casa la piccola Juri e non si sono preoccupati di cercare i suoi genitori: “noi non l’abbiamo rapita – si giustificano – non abbiamo chiesto un riscatto, le abbiamo dato da mangiare”. Quando muore la nonna, gli altri componenti della famiglia non si preoccupano di organizzare un funerale ma la sotterrano sotto il pavimento della baracca dove vivono. “Noi non l’abbiamo abbandonata, l’abbiamo accolta”: così si giustifica Nobuyo davanti alla poliziotta che le contesta il reato di sottrazione di cadavere.

Kore-Eda ci sta proponendo un’etica individualista, anzi un’etica chiusa all’interno di una famiglia, dove ogni comportamento trova la sua giusticazione con una logica strettamente immanente a quel microcosmo,  incapace di trascendere verso il resto della società a cui loro stessi appartengono con senso di responsabilità e di giustizia. Il film, verso la fine, subisce un brusco cambio di scena e compare l’altra società, quella ufficiale, giusta, ordinata, simboleggiata anche dall’eleganza e la giovanile bellezza del commissario che svolge le indagini su questa strana famiglia. L’autore non sembra, alla fine, mostrare preferenze fra queste due diverse visioni della vita, quasi fosse giusta la loro coesistenza, la prima adatta a un  microcosmo familiare , la seconda come un inevitabile impegno, necessario per gestire rapporti interpersonali più ampi.

Per fortuna il film trasmette due chiari messaggi positivi: la decisione del piccolo Shota, che sceglie di vivere “dall’altra parte” appena comprende che sta diventando grande e la trasformazione di Nobuyo, che si accorge di come il desiderio di maternità da lei coltivato  sia stato solo egoistico: l’amore di una vera madre si esprime non nel voler bene ma nel cercare il “bene” del figlio, anche quando questo comporta il suo allontanamento.

Autore: Franco Olearo

Details of Movie

Titolo Originale Manbiki kazoku
Paese Giappone
Etichetta
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