FERRO 3 La casa vuota

“Non è dato sapere se il mondo in cui viviamo sia sogno o realtà”. Con queste parole Kim Ki-duk, regista coreano molto amato in Europa, sottolinea l’ultima inquadratura di Ferro 3, premiato a Venezia con il Leone d’argento per la Migliore regia. Dagli studi di pittura, Kim Ki-Duk è passato al cinema, ha girato otto film in undici anni, sorprendendo il pubblico ogni volta con un film diverso e, in particolare con gli ultimi, per raffinatezza e originalità di visione.

Valori Educativi



L’interpretazione realistica del film ci mostra due giovani che violano l’intimità delle case altrui; quella simbolica ci presenta una metafora di solitudine ma anche di elezione, dove i cattivi (troppo cattivi) giustificano una vocazione all’isolamento

Pubblico

14+

Alcune scene violente; alcuni accenni di nudo

Giudizio Artistico



Abile e ispirato nel mescolare il fisico col metafisico, Kim Ki-Duk con agilità poetica trasfigura il quotidiano nel favoloso

Cast & Crew

Our Review

Anche nel suo ultimo lungometraggio, a partire da una trama dalla superficie semplice, il regista arriva ad evocare sentimenti delicati, complessi, intraducibili a parole e dimostra così non soltanto la profonda sensibilità che gli conoscevamo (Primavera, estate, autunno, inverno.. e ancora primavera), ma una visione personale e quasi programmatica del cinema e un impegno non comune per mostrare come si può farne una narrazione specifica, nettamente separata dalla letteratura, di cui non costituisce più una traduzione per immagini, ma un oggetto espressivo autonomo e inconfondibile. Un mezzo di comunicazione che si muove parallelamente alla parola, ma non ne dipende mai, pur servendosi della stessa durata. In tutto il film si contano infatti solo poche decine di battute, i due protagonisti addirittura non parlano mai, salvo una sola significativa eccezione.

Il tema trattato dal regista con guanti di velluto è quello della solitudine, quella che si sceglie e quella che si subisce, e come ne siamo tutti a diverso titolo affetti, mentre aspettiamo che qualcosa o qualcuno venga a liberarcene per sempre.

Il silenzioso protagonista Tae-Suk (ma nessuno lo nomina mai) è un giovane enigmatico, curioso, che sa il fatto suo e sembra avere una missione. Quasi come un travelling angel orientale, entra nelle case vuote e se ne prende cura per un po’ di tempo. Lava la biancheria, annaffia le piante, aggiusta i piccoli elettrodomestici che non funzionano, prepara il cibo, si muove con gesti sicuri, rituali, che rimandano ad altro, forse l’intuito, forse la conoscenza profonda di una realtà non altrimenti esprimibile che con queste piccole azioni all’apparenza inspiegabili.  

In queste case, con disinvoltura si occupa di ciò che è stato lasciato solo, anche se per poco, non prende niente per sé e riparte senza lasciare traccia.

In una casa soltanto decide di ritornare, dopo aver visto per pochi istanti ed essere stato visto da una ragazza, prigioniera del marito che la maltratta, altrettanto silenziosa e stupita dalla presenza di questo fantasma benigno. Senza parole, lo segue. Tae-Suk e Sun-Hwa sono perfettamente complementari nei gesti e nei silenzi, di casa in casa, quasi fossero disegnati da un Peynet zen. Questo cammino sfuggente, questo viaggio a due, che sembra essere già da subito senza fine, invece si arresta di colpo quando in una delle case visitate i due trovano un cadavere. Bruscamente il mondo si accorge di loro e i due ragazzi finiscono nei guai.

Abile e ispirato nel mescolare il fisico col metafisico, Kim Ki-Duk con agilità poetica trasfigura il quotidiano nel favoloso, mentre le scariche di palline da golf con cui il protagonista farà giustizia restano a ricordarci i più violenti lungometraggi degli inizi. Ma il ferro 3 è anche la mazza da golf più costosa e quella meno usata dai giocatori, all’interno del film quasi una metafora di solitudine e di elezione.

Il protagonista, fermando per un attimo il proprio tempo di fuga per accogliere la ragazza spaurita, scende a compromessi con le vicende umane e con la cognizione del dolore. Finirà in prigione, colpito duramente, eppure serafico, e imparerà lì ad essere invisibile, a “non esserci” per poter ritornare dalla ragazza. 

La seconda parte, in apparenza più astratta, lascia dubbi sulla verità di quello che abbiamo visto. E’ più simile ad una danza che a una vera e propria narrazione ed è di più complessa interpretazione della prima. Si affida più ai simboli che all’immediatezza per trasmettere senza parole sensazioni inafferrabili, con un lirismo leggero e quasi sensoriale. Come descriverlo? E’ un realismo magico all’orientale; difficile altrimenti spiegare quel controluce di ottimismo delicato con venature comiche, di destino benigno sotteso anche alla vita più invivibile, di bene surreale che rende possibili i paradossi, accanto a qualche discontinuità nella narrazione.

Alla fine, solo per un attimo e malvolentieri, giungiamo fino a sospettare che sia stato tutto una sequenza onirica, il lungo sogno della protagonista, prigioniera di una vita triste. Lasciati a riflettere sull’ultimo motto zen che fa da chiusura al film, improvvisamente ci sembra più saggio non perseverare. Inutile chiedere al regista il resto, dove e come continui la salvezza di queste due anime sospese. Abituato a rispondere con le immagini più che con le parole, a Venezia Kim Ki-Duk si era disegnato un occhio sul palmo della mano, come fa il protagonista per continuare a vivere vicino alla ragazza, e l’aveva mostrato alla platea, quasi a dire che i sogni è giusto che vivano e che restino al riparo dalla realtà finché possono, perché “siamo tutti case vuote. Aspettiamo qualcuno che apra la porta e ci renda liberi”.

Autore: Franco Olearo

Details of Movie

Titolo Originale Binjip
Paese Corea del Sud
Etichetta
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