THE INTERPRETER (P. Braga)
Silvia Broome (Nicole Kidman) ha scelto di servire all’Onu, da interprete, la causa del dialogo tra i popoli. La donna ha lasciato il Matobo, la patria africana insanguinata dal dittatore Zuwanie, riformatore illuminato trasformatosi in genocida una volta al potere. Involontariamente, Silvia ha ascoltato in cuffia indizi di un piano per uccidere Zuwanie, in arrivo alle Nazioni Unite per un discorso di autodifesa che gli eviti la corte internazionale. Minacciata dal killer, la donna diventa una pista da seguire per l’agente dell’FBI Tobin Keller (Sean Penn) incaricato di sventare l’attentato allo statista. I destini della traduttrice e dell’investigatore, che hanno entrambi alle spalle un passato tragico, si sovrappongono: il precipitare degli eventi li scaglierà insieme a fronteggiare la radice dei propri personali risentimenti.
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Rispondere con la violenza alla violenza che ci ha portato via qualcuno non estinguerà il dolore. Questo il messaggio del film, così riassunto in una battuta della protagonista: “La vendetta è una pigra forma di sofferenza”. Secondo il regista Sydney Pollack è necessario uno scatto dell’anima, uno spunto faticoso ma deciso, perché la ferita si rimargini, e ciò è possibile solo se qualcuno ci presta il suo aiuto, solo se qualcuno è disposto a condividere il nostro lutto. La rinnovata affermazione del valore di una vita umana, foss’anche quella di chi ci ha inflitto la perdita, sarà la prova che lo slancio interiore si è compiuto e che non siamo più prigionieri del passato. Al termine di questa traiettoria di maturazione chi, come Silvia, si appellava ad un’usanza del suo Paese per non nominare i morti, chiederà partecipe a Keller il nome della moglie scomparsa.
Pollack mette in forma di avvincente thriller una riflessione non morale, ma esistenziale, sul perdono e sulla vendetta. E’ la trama politico-diplomatica a farsi carico di allacciare la dimensione intima, personale, della storia ad un tema morale: il potere della parola e della ragione come alternativa alla violenza.
La macchina della suspense è ben congegnata e, grazie anche ad un paio di scene di ricapitolazione ben mimetizzate, riesce a macinare la mole di informazioni necessarie allo sfondo di un thriller che parla di relazioni internazionali. Ciò non toglie che il plot sia denso, che perciò dialoghi formalmente perfetti e contenutisticamente originali – si pensi al fondamentale, primo incontro-scontro tra i due protagonisti – viaggino alla velocità della luce, a volte sacrificando quei pochi istanti in più necessari a gustarli fino in fondo. Per i cinefili, un invito a rivedere il film.
Le performance delle star Penn – detective hard boiled per recentissima vedovanza – e Kidman – pasionaria di classe messa alle corde dai suoi stessi ideali – descrivono un rapporto che, dalla convenzionale conflittualità tra eroe ed eroina romantici, si stempera in quel reciproco lenimento che il regista intendeva valorizzare come viatico al superamento dell’odio.
o sviluppo del confronto, però, si apprezza a pieno osservandone la duplice filigrana simbolica. Una prima finezza consiste nel fatto che, in una pellicola dedicata alla diplomazia, il rapporto tra Silvia e Toblin è scandito dal progressivo credito dato da ciascuno dei due alle parole dell’altro in virtù del costo crescente che la rispettiva sincerità via via comporta. Come a dire che, ad ogni livello, le parole hanno forza quando vi pulsa dentro la verità, soprattutto se gravosa. Il motivo si salda nel finale con il monito pacifista della pellicola, quando la verità diventa quella delle vittime di guerra il cui sussurro suona più alto dei cannoni. Implicito, dunque, in tutte le bellissime inquadrature di New York, il riferimento a quanto è seguito all’11 settembre, mentre l’immaginario Stato del Matobo e il suo dittatore rinviano direttamente a Zimbabwe e Mugabe.
La seconda linea metaforica imbastita sui duetti Penn-Kidman gioca elegantemente sul binomio parola/immagine. Il personaggio di lui incarna l’attitudine a comprendere la realtà e il prossimo per intuizione visiva – l’agente non crede alle parole, ma guarda il volto mentre quelle vengono dette; scorge acutamente il particolare che gli evita di saltare per aria; porta avanti l’indagine con cannocchiali e istantanee fino a un decisivo guizzo di memoria fotografica –. Lei, al contrario, da buona interprete, è votata alla parola, ad un approccio verbale-uditivo – le mail, i taccuini, il libro delle sue speranze tradite, i nomi propri dei caduti –. Le due valenze, a ridosso dei protagonisti, si intrecciano e si rincorrono, come in una fuga musicale, in cui è la parola ad avere la meglio, ad imporsi come strumento di educazione affettiva, come sigillo di una trasformazione umana e come vincolo di coerenza politica.
The Interpreterè un bel film, capace di unire tensione e tocchi delicati. Accusa un poco il gusto sentimentale di Pollack, da sempre incline (si pensi a Come eravamo e a La Mia Africa) a cantare lo stato di romantica sospensione della melanconia amorosa.
Autore: Paolo Braga
Details of Movie
Titolo Originale | THE INTERPRETER |
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Paese | Gran Bretagna |
Etichetta | FamilyVerde |
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