TRON ARES
Tron: Ares resta un film che si guarda con ammirazione, ma si dimentica presto. Un esperimento visivo più che una vera rinascita narrativa — un Frankenstein moderno che vive e muore nel riflesso di uno schermo. In Sala
Al centro del racconto, due colossi tecnologici in conflitto: da un lato la Dillinger che ha perfezionato una tecnologia capace di trasformare l’immateriale in materia: una sorta di stampante laser 3D che dà corpo fisico ai programmi. Dall’altra parte, la Encom che lavora a un codice chiamato Permanence, un algoritmo capace di rompere quella barriera temporale e donare una forma di eternità alle creazioni artificiali…
Joachim Rønning
Jesse Wigutow
Valori Educativi
Cosa succede quando una macchina inizia a interrogarsi sul senso della propria esistenza, sul bene e sul male, sulla libertà, sull’inevitabile ribellione al proprio creatore? Ma la riflessione sull’identità e sulla coscienza digitale rimane in superficie, accennata più che esplorata
Pubblico
10+Qualche scena dal ritmo concitato e alcune morti violente
Giudizio Artistico
Rønning costruisce questo percorso con una regia che privilegia la forma e l’impatto visivo, più che l’approfondimento narrativo. Le sequenze ambientate nel mondo digitale sono un trionfo di luci e contrasti, la colonna sonora amplifica l’atmosfera ipnotica e solenne, anche se talvolta finisce per soffocare l’emozione.
Cast & Crew
Jared Leto
Greta Lee
Regia
Joachim Rønning
Sceneggiatura
Jesse Wigutow
Our Review

Un’altra versione cinematografica di Frankenstein è arrivata in sala. E no, non si tratta di un errore di battitura: Tron: Ares, terzo capitolo della saga digitale nata negli anni Ottanta, sembra davvero una rivisitazione in chiave tecnologica del mito creato da Mary Shelley. Nonostante la spettacolarità visiva e gli omaggi al mondo neon e al sound elettronico che hanno reso iconico il franchise, il film diretto da Joachim Rønning lascia la sensazione di trovarsi davanti a un’opera curata nella forma ma priva di una reale evoluzione concettuale.
Un esperimento affascinante, che però non riesce a prendere pieno slancio.
L’universo di Tron, già esplorato nel 1982 e poi ripreso nel 2010 con Tron: Legacy, si aggiorna ora all’epoca dell’intelligenza artificiale. Al centro, due colossi tecnologici in conflitto: da un lato la Dillinger, azienda spregiudicata che ha sviluppato un programma capace di infiltrarsi e dominare qualsiasi sistema, chiamato Ares; dall’altro la Encom, erede della visione idealista e “umanista” che da sempre caratterizza la saga, impegnata a usare la tecnologia per migliorare la vita delle persone.
La Dillinger, oltre a controllare il mondo dei dati, ha perfezionato una tecnologia capace di trasformare l’immateriale in materia: una sorta di stampante laser 3D che dà corpo fisico ai programmi. È così che Ares, l’intelligenza artificiale più potente mai creata, prende le sembianze di Jared Leto. Il risultato è spettacolare: super-soldati e macchine da guerra vengono generati in pochi minuti. Ma il miracolo è effimero — dopo ventinove minuti di vita, ogni creatura digitale si dissolve nel nulla.
Dall’altra parte, la Encom lavora a un codice chiamato Permanence, un algoritmo capace di rompere quella barriera temporale e donare una forma di eternità alle creazioni artificiali. Ed è qui che il film tenta un salto concettuale: cosa succede quando una macchina inizia a interrogarsi sul senso della propria esistenza, sul bene e sul male, sulla libertà, sull’inevitabile ribellione al proprio creatore? È in questo punto che Tron: Ares si avvicina più di ogni altro film della saga al mito di Frankenstein: la creatura che prende coscienza di sé, comprende il proprio dolore e si domanda se la vita donata non sia, in realtà, una condanna, arriva a interrogarsi sulla possibilità di rivolta verso il proprio creatore.
Rønning costruisce questo percorso con una regia che privilegia la forma e l’impatto visivo, più che l’approfondimento narrativo. Le sequenze ambientate nel mondo digitale sono un trionfo di luci e contrasti, superfici specchiate, costumi che riprendono la geometria del primo Tron ma con un’estetica contemporanea. La colonna sonora — imponente firmata da Joseph Trapanese con i NIN — amplifica l’atmosfera ipnotica e solenne, anche se talvolta finisce per soffocare l’emozione.
Eppure, dietro l’apparato visivo e sonoro, il film sembra mancare di consistenza. La riflessione sull’identità e sulla coscienza digitale rimane in superficie, accennata più che esplorata, forse per non turbare il ritmo di un blockbuster che punta a rilanciare un franchise storico. Ne emerge così un prodotto elegante e affascinante, ma che vive più di suggestioni che di vera sostanza narrativa.
Tron: Ares è un film che parla della fragilità della creazione, del limite che separa la vita dalla simulazione, ma lo fa attraverso un linguaggio che, paradossalmente, rischia di svuotare il proprio messaggio. È un’opera che abbaglia e affascina, ma si dissolve — proprio come le creature digitali che racconta — lasciando nello spettatore un senso di bellezza effimera e di vuoto.
Alla fine, il risultato somiglia alle invenzioni della Dillinger: perfetto all’apparenza, curato nei minimi dettagli, ma incapace di sopravvivere oltre il tempo dello spettacolo. Tron: Ares resta un film che si guarda con ammirazione, ma si dimentica presto. Un esperimento visivo più che una vera rinascita narrativa — un Frankenstein moderno che vive e muore nel riflesso di uno schermo.
Autore: Francesco Marini
Details of Movie
| Paese | USA |
|---|---|
| Tipologia | Film |

There are no reviews yet.