Scegliere un film 2012

SCEGLIERE UN FILM 2012

 

Armando Fumagalli – Luisa Cotta Ramosino
 

SCEGLIERE UN FILM 2012

 
Recensioni di Paolo Braga, Emanuela Canonico, Raffaele Chiarulli, Laura Cotta Ramosino, Niccolò Dal Corso, Daniela Delle Foglie, Chiara Ferla Lodigiani, Eleonora Fornasari, Emanuela Genovese, Ilaria Giudici, Eleonora Recalcati, Maurizia Sereni, Cecilia Spera, Andrea Valagussa.
 
 
 
Dopo un’annata di vero e proprio boom (grazie agli exploit delle varie commedie, vedi introduzione a Scegliere un film 2011), la stagione 2011-2012 doveva essere, almeno per l’Italia, l’atteso banco di prova per la tenuta di un’industria in cerca di identità. Purtroppo siamo costretti a registrare una battuta d’arresto non tanto o non solo in termini di incassi, ma soprattutto in termini di idee e capacità di rinnovamento. Non mancano, infatti, alcuni titoli capaci di richiamare il pubblico, ma si tratta soprattutto di riproposizioni non troppo originali di concept già sperimentati (si veda per esempio Benvenuti al Nord o Immaturi 2 –Il viaggio) che poco o nulla aggiungono agli originali.
I numerosi emuli ottengono risultati discontinui, che non sempre corrispondono alla minore o maggiore qualità dei titoli (Ex Amici come prima, Baciati dalla fortuna o Finalmente la felicità, per non parlare dell’ultima fatica di Fausto Brizzi, Come è bello far l’amore).
E nonostante questo c’è almeno una cosa di cui andare fieri, ed è la vittoria conquistata a Berlino da due arzilli ottantenni, i fratelli Taviani, che con il loro Cesare deve morire hanno saputo rinverdire i fasti di un cinema d’impegno civile (hanno ambientato l’opera shakespeariana nel carcere di Rebibbia con un cast di carcerati) senza inunciare a rendere il loro lavoro affascinante e potente.
E l’impegno è dietro anche all’ultimo lavoro di Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage, che vive soprattutto delle ottime interpretazioni di Pierfrancesco Favino e Valerio Mastandrea nei panni di Pino Pinelli e del commissario Calabresi. Una ricostruzione piena di dettagli che se forse non sfugge ai rischi di una certa ideologia testimonia però il desiderio di rendere giustizia alle vittime (tutte le vittime) della violenza terroristica, accomunando gli innocenti in una comune sofferta rievocazione. 
Meno convincente, in questa scia, Diaz – Don’t clean up this blood di Daniele Vicari, dedicato agli eventi del G8, che sembra talmente ansioso di dare conto della violenza perpetrata da non riuscire a costruire veramente un racconto che tale violenza contestualizzi e tenti almeno di spiegare.
A livello europeo non sono mancate le belle sorprese, a partire dal successo planetario di The Artist, del regista lituano (ma ormai francesissimo) Hazanavicius, pellicola quasi totalmente muta (e in bianco e nero) che aveva già conquistato il pubblico al festival di Cannes del 2011.
Una marcia vittoriosa proseguita fino all’Oscar (anche all’interprete) e che ha conquistato anche il pubblico con una storia semplice e positiva, dimostrazione di una vitalità del cinema europeo che è testimoniata oltre che dal grande successo dell’altro francese Quasi amici, anche da una manciata di titoli davvero interessanti sia sotto il profilo artistico sia valoriale: Miracolo a Le Havre del finlandese Kaurismaki, Sister della svizzera Meier e Tutti i nostri desideri del francese Lioret, La guerra è dichiarata di Valérie Donzelli sono vicende «piccole», ma preziose nel raccontare un’umanità toccata dal dolore, ma non priva di speranza.
Un po’ come accade nella rivisitazione del romanzo di Camus Il primo uomo fatta dal nostro Gianni Amelio, che mescola il romanzo all’autobiografia facendo emergere una laica ricerca del padre e del destino piena di intensità. 
Non solo Europa comunque; ci piace segnalare un film argentino passato troppo in fretta dalle sale (anche se aveva vinto il premio di critica e pubblico al Festival di Roma) e che merita di essere recuperato per lo sguardo intelligente e positivo che getta sull’uomo: Cosa piove dal cielo è la storia di individui che più diversi di così non si può: uno scorbutico ferramenta argentino e un candido cinese alla ricerca di un futuro in terra straniera. Il loro incontro diventa il banco di prova di una visione del mondo posta di fronte all’alternativa tra cinismo e speranza.
Così come sono degni di nota alcuni titoli provenienti dal Vicino Oriente: oltre al vincitore del premio Oscar Una separazione (una tragedia sul rapporto tra giustizia e verità), E ora dove andiamo? della libanese Nadine Labaki (meglio riuscito di un film per certi versi affine come La sorgente dell’amore di Radu Mihaileanu) e Pollo alle prugne di Vincent Paronnaud e Marjane Satrapi sono buoni esempi di storie solo teoricamente «lontane» dal pubblico italiano e capaci invece di rivelarsi veramente universali nel raccontare il dramma (e non solo) dell’umano vivere.
Di fronte a questi piccoli grandi capolavori non si può fare a meno di notare i «fallimenti» o per lo meno le cadute di alcuni registi considerati Autori, e che invece si rinchiudono nell’autoreferenzialità intellettualoide (Cronenberg con Cosmopolis), nella maniera fine a sé stessa (Almodovar con La pelle che abito) o nella triste banalità (l’Olmi del deludente Villaggio di cartone).
Ma questa stagione sarà ricordata senza dubbio come quella dei supereroi da grande schermo: Capitan America, The Avengers, e con l’estate (e per questo non nclusi in questo volume) Batman e Spiderman (e forse dovremmo includere anche Mission Impossible 4 e Sherlock Holmes, riconoscendo all’Ethan Hunt di Tom Cruise e all’Holmes di Robert Downey Jr. lo status di supereroi…).
I personaggi dei fumetti (soprattutto Marvel) hanno dimostrato una straordinaria capacità di conquistare un pubblico trasversale con le loro avventure ad alto tasso di adrenalina, che tuttavia non dimenticano l’aspetto umano (e valoriale) offrendo agli spettatori storie dal grande impatto emotivo. Un po’ come Hunger Games, pellicola per ragazzi – ma non solo – ambientata in un futuro distopico e violento, successo stratosferico in America, un po’ meno in Italia, dove il romanzo da cui è tratto (il primo di una saga) non è ancora conosciuto. La vicenda drammatica di una ragazza costretta a combattere per la propria vita in un mostruoso reality show è l’inizio di una vicenda che mescola abilmente riferimenti al passato remoto e «vizi» del presente, ma che indica nell’amore come sacrificio l’unica via per non soccombere al male.
Il cinema americano, d’altra parte, sa anche offrire prodotti impegnati e ambiziosi come Le Idi di marzo, in cui George Clooney compone uno spietato ritratto della politica e dei suoi compromessi o Margin Call, intelligente e appassionante racconto delle origini della crisi economica mondiale che non si accontenta della polemica anticapitalista, ma va dritto al cuore delle responsabilità personali.
Così come fa con grande capacità di coinvolgimento The Help, un racconto corale che parte da un’esperienza personale per raccontare la battaglia per la dignità contro il razzismo che ancora negli anni ’60 percorreva la mentalità comune nel Sud degli Stati Uniti.
Da un caso individuale (e da un argomento in prima battuta arduo, come l’applicazione di calcoli statistici al baseball…) parte anche l’ultima fatica del grande sceneggiatore Aaron Sorkin, che però poi in L’arte di vincere usa la sua leggendaria capacità di tessere personaggi e dialoghi per offrire al pubblico il ritrattodi un uomo (e di un padre) che riesce a fare i conti con le proprie decisioni e il proprio passato, e per questo impara a essere felice anche di fronte a una vita diversa da quello che aveva immaginato. Un percorso che passa attraverso un’avventura insospettabilmente appassionante, fatta di calcoli, sì, ma soprattutto di persone e decisioni…
Senza dimenticare che se per un anno il pubblico è rimasto orfano dei cartoni «intelligenti» della Pixar, non sono mancati altri titoli capaci di unire genitori e figli in un divertimento autentico. Basti pensare a pellicole come Arthur Christmas (prodotto dai medesimi autori di Wallace e Gromit) e all’ennesimo capolavoro del maestro Miyazaki, Il castello nel cielo, diversissime per la tecnica utilizzata, ma entrambe capaci di parlare in modo non banale e capaci di toccare con leggerezza anche temi importanti.
Quest’anno abbiamo voluto inserire anche un paio di titoli «vecchi», ma che sono stati in modi diversi meritoriamente ripresentati al pubblico italiano. Da una parte The Great Debaters,  una solida ricostruzione storica che vede protagonista Denzel Washington e un gruppo di ragazzi di colore alle prese con la sfida di un club di dibattito in cui mettere in gioco ben più della semplice retorica, trova finalmente la strada della distribuzione home video. Dall’altra Hunger, dell’artista Steve McQueen, che, grazie al successo critico di Shame e del suo interprete Michael Fassbender, è arrivato addirittura nelle sale. Si tratta di un film duro, ma certamente interessante e onesto nel raccontare la lotta estrema dell’irlandese Bobby Sands contro le violenze degli inglesi contro i prigionieri dell’Ira nel periodo dello scontro per l’indipendenza dell’Irlanda del Nord. 
 
                                                                                                                                                                                A.F. e L.C.R.
 
 
 
  • Armando Fumagalli è docente di Semiotica e Direttore del Master Universitario in Scrittura e produzione per la fiction e il cinema presso l’Università Cattolica di Milano. È consulente per lo sviluppo progetti per la società di produzione televisiva Lux vide.
  • Luisa Cotta Ramosino unisce l’attività di ricerca e docenza presso l’Università Cattolica di Milano con quella di sceneggiatrice e story editor. Ha collaborato a fiction per RaiUno come Sotto il cielo di Roma, Preferisco il paradiso e Un passo dal cielo e per Taodue ha lavorato nel team di scrittori-editor delle serie Distretto di polizia 6, 7, 8 e 9.