STAR WARS-L’ASCESA DI SKYWALKER
Sono passati alcuni anni dalla morte di Luke Skywalker. Le speranze per salvare la galassia dall’ombra fagocitante del male sono riposte nelle qualità della giovane Rey che – sotto la guida paziente ed esperta della ex principessa (e ora generale) Leia Organa – sta completando l’addestramento per diventare una jedi. Sul fronte opposto, intanto, il tormentato Kylo Ren, diventato finalmente “leader supremo” del contingente dei cattivi, segue la traccia di un misterioso messaggio proveniente dai confini estremi dell’universo: su un pianeta sperduto – raggiungibile solo da chi possiede un raro “puntatore” (un oggetto a metà tra una bussola e un amuleto) – un oscuro signore delle tenebre sta pianificando una “soluzione finale” atta non solo a sbaragliare una volta per tutte le forze della resistenza ma anche ad annientare qualsiasi altra forma di vita refrattaria a essere assoggettata. Una brutta gatta da pelare per l’alleanza ribelle ma anche per Kylo Ren. Tra le richieste del suo committente, infatti, c’è innanzitutto quella di eliminare Rey in quanto ultima erede dei cavalieri jedi. Peccato che il ragazzo abbia sulla fanciulla tutt’altro tipo di mire.
Questo finale di saga sembra dire qualcosa di valido sulla voracità insaziabile del potere. Gli adepti del villain di turno costituiscono una massa asservita e perfettamente omologata; i buoni, invece, sono una “moltitudine”. Hanno un volto, un nome, si conoscono tra di loro e si battono l’uno per l’altro
Valori Educativi
Il bene e il male si fronteggiano in maniera netta e, benché i personaggi principali siano sottoposti a terribili tentazioni, la differenza tra la scelta della luce o del lato oscuro è chiara, senza ironie o ammiccamenti post-post-moderni. L’antropologia della saga si abbevera a un sincretismo culturale che mixa religioni orientali, miti gnostici con ombre di new age
Pubblico
10+Scene di tensione e violenza nei limiti del genere ma potenzialmente impressionanti per i più piccoli
Giudizio Artistico
Le scenografie ed gli effetti speciali sono perfetti e mirabolanti ma l’andamento del racconto, da un punto di vista del ritmo, sembra risentire un po’ della complessità narrativa tipica della serialità televisiva. L’accavallarsi di eventi, di personaggi e sotto-trame sembra che servano a coprire il vuoto di idee davvero originali
Cast & Crew
Regia
J.J. Abrams
Our Review
Un dato in particolare balza all’occhio ora che la saga di Star Wars ha concluso quello che i fan conoscono come il suo “canone principale”: che nella realizzazione di questa terza e (per ora) ultima trilogia è mancata una progettualità cinematografica e una visione d’insieme. Tutto si può dire di George Lucas (ideatore dei personaggi e responsabile dei primi sei episodi) tranne che non avesse una idea precisa di cinema e non che fosse capace di svilupparla con coerenza. Perfino i deludenti “prequel” (gli episodi I, II e III prodotti tra il 1999 e il 2005) partecipavano di questa visione ed erano parte integrante di una estesa mitologia frutto di un progetto dalla chiara intenzionalità. Non si dimentichi soprattutto che, nonostante i fantastiliardi guadagnati con i film e soprattutto con il merchandising, Lucas è sempre stato un film-maker indipendente. Se c’è sempre stato bisogno di una major per la distribuzione (per i primi sei film le fanfare della 20th Century Fox hanno anticipato la fanfara del celeberrimo tema composto da John Williams), da un punto di vista produttivo Lucas ha sempre fatto tutto in casa, obbedendo solo al proprio estro creativo. Non è un caso che, numericamente, sia stato un cineasta assai poco prolifico: solo sei film da regista, meno anche di mostri sacri come Stanley Kubrick o Terrence Malick, famosi per la loro parsimonia. Con la cessione di tutta la proprietà intellettuale della Lucasfilm al colosso Disney, da essere un affare privato (sia pur, dicevamo, miliardario), Star Wars è diventato il prezioso tassello di un’operazione commerciale dove alla visione di un Autore (e nessuno è stato più Autore di Lucas negli ultimi cinquant’anni, forse solo Steven Spielberg e John Lasseter) si è sostituita una strategia aziendale. Al mitografo si sono sostituiti coloro che erano cresciuti con il mito. Al papà che racconta una storia, i bambini che la mimano giocando con i pupazzetti. Tolta dalle mani del suo creatore, la saga di Star Wars ormai pare solo omaggiare se stessa. Ovvero, per dirla con il titolo di un citatissimo saggio di Franco La Polla della fine degli anni Settanta (saggio prematuro ma anche premonitore), “quando hai visto un’astronave di plastica, le hai viste tutte”.
Che Star Wars sia assurto ormai a mito vero e proprio (sì, proprio come Giasone e Bellerofonte, Orlando e Lancillotto) si è visto dalla traiettoria ondivaga compiuta da questa terza trilogia e dal rapporto che ciascuno dei tre episodi ha instaurato con l’immane narrazione previa: Rian Jonhson, regista e sceneggiatore dell’episodio precedente, aveva avuto carta bianca nel portare avanti la storia a suo piacimento e aveva quindi approcciato la cospicua eredità a sua disposizione con piglio da rivoluzionario. Il risultato aveva spaccato a metà la comunità dei fan. Ad alcuni era piaciuto il cambio di fisionomia e l’avventura in terreni inesplorati. Ad altri – forse la maggioranza – tutta l’operazione era parsa una sorta di tradimento; al limite della lesa maestà. Ecco allora tornare al tavolo degli sceneggiatori e dietro la macchina da presa il riverente J.J. Abrams, di grande personalità e talento ma anche incline al rispetto dei paradigmi (se in televisione è stato da tutti i punti di vista un innovatore, il suo palmarès cinematografico è composto invece unicamente da sequel, reboot e omaggi, da Mission:Impossible a Star Trek, passando per Super 8). Il compito di Abrams è stato quello di rimettere la saga sui suoi saldi binari, non tanto perché questo film dovesse essere il suo atto finale ma soprattutto perché servisse a rilanciare il “brand” di Star Wars in vista del progetto che ne sta già espandendo l’universo narrativo su più media e più piattaforme (già si è iniziato con la serie tv The Mandalorian andata su Disney+). Dopo la rivoluzione, la restaurazione. Dopo la riforma, la controriforma. Dopo la dissacrazione, la riconsacrazione.
L’ascesa di Skywalker, venendo al film in questione, brutto non è. Funziona quanto basta e appaga le curiosità svelando tutti i misteri che erano rimasti irrisolti al termine delle puntate precedenti. Naturalmente scenografie ed effetti speciali sono perfetti e mirabolanti ma per meno di questo da una produzione multimiliardaria non varrebbe la pena neanche spendere i soldi del biglietto. L’andamento del racconto, da un punto di vista del ritmo, sembra risentire un po’ della complessità narrativa tipica della serialità televisiva. L’accavallarsi di eventi, personaggi e sotto-trame aveva già fatto la fortuna della saga ma stavolta sembra che l’accumulo e la velocità servano a coprire il vuoto di idee davvero originali. E la linearità dei primi episodi – con i suoi momenti di lentezza e approfondimento – restava molto più impressa nella mente e nel cuore. Ad Abrams e ai suoi co-sceneggiatori non resta quindi che moltiplicare gli avvenimenti, i colpi di scena, le resurrezioni improbabili e, naturalmente, i duelli, le astronavi e i satelliti-killer. E i personaggi? Per fortuna, nel rinsaldare il racconto agli archetipi mitici più tradizionali, si abbandonano certe ambiguità che riscontravamo nell’episodio precedente. Qui il bene e il male si fronteggiano in maniera netta e, benché i personaggi principali siano sottoposti a terribili tentazioni, la differenza tra la scelta della luce o del lato oscuro è chiara, senza ironie o ammiccamenti post-post-moderni. Tutta la saga di Star Wars, in fin dei conti, ha lavorato sul tema delle scelte e del libero arbitrio e sulla speranza inestinguibile nelle possibilità dell’essere umano di scegliere in ultimo il bene. Peccato solo che l’evoluzione dei protagonisti sia proprio in questo episodio molto più da intuire che da riscontrare. E le emozioni molto più “dette” che mostrate.
Inutile dire che l’antropologia della saga si abbevera a un sincretismo culturale che mixa religioni orientali, miti gnostici con ombre di new age tutta hollywoodiana. Siamo pronti però a mettere una mano sul fuoco sulla totale assenza di malizia da parte di George Lucas nell’usare tali fonti quando ha ideato il racconto. Stiamo sempre parlando di un ragazzone californiano appassionato di macchine da corsa e con la biblioteca ben fornita che è riuscito a diventare, e a restare per tutta la vita, un regista indipendente. Con lo stesso candore, nella scena finale del primo Guerre stellari (1977) poteva permettersi di citare Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl (celebre e riuscitissimo film di propaganda nazista) senza nessun sottinteso a parte la bellezza dell’inquadratura. Nel passaggio della saga dalle mani di Lucas a quelle della Disney non abbiamo dormito gli stessi sonni tranquilli ma quest’ultimo film si conferma per fortuna un esempio di “cinema classico”, destinato a piacere a tutti e senza alcuna controindicazione dal punto di vista valoriale. Interessante, anzi, il discorso che la sceneggiatura riesce a esporre sul tema del “potere”. Se la trilogia dei prequel (gli episodi I, II e III) aveva mostrato come le dittature siano il risultato delle “fabbriche del consenso”, questo finale di saga sembra dire qualcosa di valido sulla voracità insaziabile del potere, sulla sua forza annichilente, e sugli antidoti possibili nel consociarsi libero degli individui che perseguono un giusto ideale. Al villain del film non basta imperare sulla galassia: la sua brama è distruttiva proprio come quella del “serpente antico”. I suoi adepti non hanno volto né personalità, costituiscono una massa asservita e perfettamente omologata. I buoni, invece, non sono una “massa” ma una “moltitudine”. Hanno un volto, un nome, si conoscono tra di loro e si battono l’uno per l’altro. L’unica scena veramente originale del film è un insperato “arrivano i nostri” (che ricorda un po’ quello di Dunkirk di Christopher Nolan), che costituisce tra l’altro l’unico legame con il capitolo precedente: Gli ultimi jedi, infatti, terminava con un ragazzino schiavo – vessato da un burbero alieno – che sognava un riscatto guardando speranzoso il cielo. Il manico della ramazza che aveva in mano, stagliandosi contro la luce della luna, pareva assumere la forma di una spada laser. Come a dire che ciascuno – anche senza doni speciali – può diventare un jedi (o, se preferite, un cavaliere di Re Artù). Ognuno di noi, cioè, nel suo piccolo, con le sue scelte, può essere un antidoto contro il potere e la piccola parte di ciascuno può diventare, unita a quella di tutti gli altri, un grande dono per tutti.
Il film è quello che è ma dopo nove film e quarant’anni, è una preziosità da portarsi a casa. La Forza è ancora con noi.
Autore: Raffaele Chiarulli
Details of Movie
Titolo Originale | Star Wars: The Rise of Skywalker |
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Paese | USA |
Etichetta | FamilyVerde |
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