LA REGOLA DEL SILENZIO

2012117 min10+  

Stati Uniti, anni Settanta. Tre militanti di un gruppo estremista rapinano una banca e uccidono una guardia giurata. Poi, si danno alla macchia. Uno dei tre muore alcuni anni dopo ma gli altri due restano latinanti. Trent’anni dopo, una dei responsabili dell’omicidio (Susan Sarandon) – che nel frattempo si è rifatta una vita, sposandosi e crescendo due figli – decide di costituirsi, schiacciata dai sensi di colpa. L’FBI riapre il caso: chi è e che fino ha fatto il terzo aggressore? Il giovane reporter di un giornale di provincia (Shia LaBeouf), fiutato il grande scoop, sfrutta la conoscenza di un’amica che lavora con i Federali (Jackie Evancho) e si mette in cerca dei complici della donna. Scoppierà un polverone.

Robert Redford, sostenitore oltranzista di tutte le cause liberal, racconta il pentimento (tardivo) dei componenti;di un gruppo radicale estremista degli anni settanta, i Weather Underground. Il film condanna i metodi violenti ma finisce per guardare  con una certa indulgenza alla generazione che ha fatto la contestazione anche con metodi violenti


Valori Educativi



Redford non giustifica le azioni violente di chi ha premuto i grilletti e innescato le bombe, ma sostenitore oltranzista di tutte le cause liberal, non si può negare che guarda con una certa indulgenza alla generazione che ha fatto la contestazione anche con metodi violenti

Pubblico

10+

Alcune scene cariche di tensione

Giudizio Artistico



Cast & Crew

Our Review

La regola del silenzio (tratto dal romanzo di Neil Gordon The Company You  Keep) inizia con immagini di repertorio ambientate negli Stati Uniti negli anni Settanta. Siamo nel periodo burrascoso della contestazione e la storia si focalizza sulle azioni di un gruppo radicale estremista, i Weather Underground, che dalla protesta pacifica si convertirono a un tipo di dissenso molto più violento, compiendo azioni terroristiche.

Il film vorrebbe far dialogare due generazioni ed è costruito come una sorta di lezione sugli anni della contestazione fatta da chi quell’epoca l’ha vissuta da vicino, e dall’interno, a chi ora guarda le cose da lontano, con interesse e con le mediazioni culturali dei libri di storia (e, aggiungiamo, dei film sull’argomento). Infine, vuole proporre una sintesi che abbia il duplice intento, da una parte, di condurre a miti consigli chi rimpiange quel periodo e le sue violenze e, dall’altra, raffreddare gli istinti arrembanti di quanti – giornalisti in primis – credono di sapere tutto sul passato e di poterlo giudicare. Robert Redford dirige, produce e interpreta un film a metà tra il giallo e il film politico e d’impegno civile. Ne esce un ibrido in cui la sostanza hollywoodiana si mescola con gli umori, anche cinematografici, provenienti dagli anni Sessanta-Settanta. Si racconta di una caccia all’uomo: Redford interpreta uno degli ex militanti, ora vedovo e con una figlia di 11 anni, che ha vissuto sotto falso nome per trent’anni, viene scoperto e fugge. A braccarlo, un giornalista impiccione a caccia di gloria personale e l’FBI, incarnata da un tenace funzionario non meno ambizioso (Terrence Howard). Meglio sorvolare sulle inverosimiglianze della trama, per esempio sul fatto che un ricercato dai Federali – il cui volto finisce in televisione e sulle prime pagine dei quotidiani – possa girare in lungo e in largo per mezza America senza essere riconosciuto, perché mimetizzato da un cappellino da baseball ben calcato in fronte. Redford, forse, è convinto di essere ancora ai tempi dei Tre giorni del Condor: con appena un po’ più di affanno rispetto agli anni d’oro, e nonostante le 76 lune suonate, corre, salta, scavalca agilmente una recinzione, piomba nel viottolo sottostante, rotola in strada, si rialza e riprende a correre – non diciamo senza spaccarsi nemmeno un femore ma neanche spettinandosi il ciuffo pel di carota. Fa impressione vederlo nella stessa inquadratura insieme a Nick Nolte, che ha cinque anni meno di lui e sembra essere suo padre. Non scriviamo questo per fare facili ironie o per il gusto del pettegolezzo hollywoodiano: piuttosto, per notare quale sia la percezione dell’attore-regista di sé e del cinema che fa. La regola del silenzio è infatti un film sul tempo che passa, un confronto tra generazioni, un bilancio di un’epoca e una riflessione sui cambiamenti nella coscienza e nell’anima di una nazione.

Non spetta a noi rivelare gli snodi della trama che portano il protagonista a fare i conti con suo fratello (Chris Cooper); con il poliziotto che all’epoca si occupò del caso (Brendan Gleeson); con i “confratelli” del movimento contestatore di allora, che ora sono stimati professionisti (Richard Jenkins); oppure si sono riciclati in altro modo (Nick Nolte); oppure, ancora, continuano a combattere il “sistema” con altri mezzi (Julie Christie). È un percorso a ostacoli, che è anche una rivisitazione morale. Il conflitto sembra giocarsi sulla dinamica che oppone un passato violento, di chi è convinto di aver combattuto guerre giuste con metodi giusti, e un quieto presente di chi è stato cambiato dalla vita e dalla realtà e ora è a queste – e non più a un’ideologia – a dover obbedire. 
Una nota: il film non completa perfettamente tutti gli archi dei personaggi. Più che altro, sembra che ogni personaggio rispecchi la parte di un tutto più complesso, più articolato (così, per esempio, il personaggio di Chris Cooper – fratello del protagonista ed estraneo ai fatti – rappresenta la componente “pacifica” del dissenso; il personaggio di Jenkins – che insegna storia all’università – raffigura la parte intellettuale, e così via…). Redford ritrae un’intera generazione che medita sul suo passato, non giustifica le azioni violente di chi ha premuto i grilletti e innescato le bombe, ma non è tenero neanche nei confronti di quel sistema che quelle azioni avevano provato a sovvertire.
Una seconda nota: la posizione finale del film sembra equilibrata perché suggerisce, nel crocevia ingarbugliato della Storia (quella con la S maiuscola), una strada percorribile da chiunque (non diciamo qual è, se no riveliamo il finale del film). Però Redford commette lo stesso errore di Leoni per agnelli, e cioè a un certo punto del film sale in cattedra e inizia una lezione didascalica che, per quanto corretta, è anti-cinematografica. Che sia una predica, o un predicozzo, a convertire i cuori delle persone, e a far fare loro la cosa giusta, non è molto realistico. Forse è per questo che il film, nonostante l’ottimo cast, la narrazione lineare e il tema forte, ha un andamento  abbastanza fiacco. Redford crede fermamente nel potere educativo e persuasivo del cinema; però forse dovrebbe scegliere registi più abili di se stesso per raccontare questo tipo di storie. 

Autore: Raffaele Chiarulli

Details of Movie

Titolo Originale The Company You Keep
Paese USA
Etichetta
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