IL NOVECENTO IN CELLULOIDE
La storia del cinema europeo dalle origini alla conclusione della seconda guerra mondiale può essere studiata in svariate maniere. Anche cercando di comprendere alcune problematiche relative alla radicale irreligiosità verificatasi nel Novecento, il secolo della più potente aggressione al cristianesimo. Ma nel corso del Novecento, oltre al processo di secolarizzazione, si verifica un altro importante fenomeno: l’affermazione della cinematografia a livello sociale e artistico, presto divenuta il più prezioso indicatore dei comportamenti umani. Ha osservato Igor Golomstockche il «crogiolo dei movimenti rivoluzionari dell’inizio del secolo favorì il nascere di un’ideologia artistica, molti elementi della quale dovevano più tardi confluire nell’arte totalitaria. Il totalitarismo tradusse nel proprio linguaggio le idee dell’avanguardia e ne fece un’arma con la quale distruggere il nemico». Questo è un passaggio essenziale per comprendere la parabola del cinema europeo nella prima metà del XX secolo. L’arte nell’epoca del dominio universale della tecnica sul mondo, stava accompagnando l’Europa ad un grandioso «destino» di progresso. E l’arte stessa si impegnava, in nome dell’avanguardia, a distruggere ogni barriera. Di distruzione in distruzione, si è arrivati al totalitarismo. La storia del cinema europeo, dal 1895 al 1945, visualizza il «destino» modernista giunto all’apice nella Belle Époque, successivamente frantumatosi sugli scogli di due guerre mondiali, che aprono la strada all’instaurazione dei regimi totalitari. All’alba del XX secolo l’invenzione dei fratelli Lumière è l’ultima, straordinaria macchina della supremazia europea nell’Occidente. Gli «anni vertiginosi» che seguono conducono prima al massimo splendore e poi al suicidio dell’Europa. La cinematografia segue lo stesso cammino. Sulle macerie rimaste alla fine del secondo conflitto mondiale, il cinema europeo scopre di aver perso la funzione di guida, appannaggio ormai al cinema americano.
L’inevitabilità della distruzione del pensiero europeo venne annunciata a livello filosofico durante il XIX secolo e resa ancora più esplicita agli inizi del XX. L’affermazione e la diffusione del nichilismo stanno lì a confermarlo. Martin Heidegger in una conferenza del 1938 aveva individuato tra le manifestazioni del «Mondo Moderno» la «sdivinizzazione». E l’immagine del mondo moderno di cui parlava Heidegger sarebbe stata fissata dal nichilismo, la cui portata ha fatto smarrire all’Europa la propria identità, un processo storico non indebolitosi ma addirittura consolidatosi, nella forma postmoderna, alla fine del XX secolo. Se non c’è alcun Essere, come sostiene Heidegger, se Dio è morto, come afferma Nietzsche ripreso e commentato da Heidegger, allora vuol dire che non esiste nessuna verità stabile. La conseguenza del nichilismo metafisico è il nichilismo morale, la sistematica distruzione del modello fisso di distinzione del bene dal male. Il Novecento ha conosciuto due pratiche: nella prima metà il «nichilismo forte» (il totalitarismo) e nella seconda metà il «nichilismo debole» (relativismo dei valori e desocializzazione). Come ha notato il filosofo Alasdair MacIntyre nel XIX secolo «il progetto di una giustificazione razionale indipendente dalla morale non è più semplicemente la preoccupazione di singoli pensatori, ma diventa una questione centrale della cultura nordeuropea». Nell’Ottocento Fichte, Hegel, Marx e Nietzsche hanno preparato il terreno del totalitarismo. Sul pensiero di Marx e su quello di Nietzsche prende avvio l’«epoca della secolarizzazione», giunta alle conseguenze estreme nel secolo successivo. Per Hegel la violenza è necessaria nella dinamica storica, e Lenin applicandosi proprio alla dialettica hegeliana, sposa senza riserve questo pensiero. Pensiero attraverso il quale sia Lenin che Hitler hanno contribuito in maniera significativa a distruggere l’Europa.
La teoria del cinema, dopo anni e anni di analisi minuziose, dovute soprattutto all’affermazione nell’ambito degli studi teorici e delle pratiche interpretative correnti di metodologie strutturaliste, semiotiche e psicoanalitiche, dopo lavori e lavori dedicati alla scomposizione, spesso infinitesimale, dell’opera filmica, in alcuni contesti si è presa coscienza che in realtà la ricerca aveva percorso un tragitto senza via di uscita. Saremmo entrati dunque, riprendendo il titolo di un importante saggio, nella «post-teoria». Ma pur se salutare, tale passaggio comunque sta assumendo la fisionomia del «paradigma» precedente, affievolito nelle punte più estreme, mescolata con la nuova moda americana dei «cultural studies». Indicatore di questa tendenza è il recente lavoro di un ricercatore di notevole qualità, Noël Burch, impegnato a denunciare i vuoti estetismi della critica, riversatisi negli studi cinematografici. Burch, buon conoscitore dei «cultural studies» americani, indica un percorso tutto sommato condivisibile. Invita cioè a rivolgere lo sguardo non ai salotti buoni della casa cinematografica (le opere degli autori), ma, recuperando metaforicamente un provocatorio pensiero di Théophile Gautier, allo spazio più utile delle abitazioni, le «latrine» (quanto non preso in considerazione dalle «interpretazioni autoriali»). Il risultato finale però è l’equivalente del salto dalla padella alla brace, rappresentato dal recupero delle letture femministe dei rapporti di genere. Negli ultimi decenni all’interno delle discipline cinematografiche abbiamo assistito all’abbandono di una metafisica dell’arte a vantaggio di una radicale attenzione rivolta ai sistemi significanti e alle architetture che sottendono e regolano la comunicazione filmica. Ricorda Armando Fumagalli, ad esempio, che un discorso serio e ragionato sull’estetica del cinema deve ancora essere affrontato. «Da ormai molti anni – scrive – il rapporto fra estetica e cinema sembra in crisi: la frantumazione degli studi sul cinema in una serie di correnti e di approcci molto diversi è andata di pari passo con una cancellazione della questione più propriamente estetica. Come afferma Dudley Andrew […] la parola “estetica” è stata praticamente cancellata dal vocabolario della teoria del cinema. Ciò è del resto in consonanza con una crisi generale della dimensione propriamente estetica, che ha portato assai spesso in tutte le arti a confondere il valore intrinseco – estetico, appunto – di un’opera con la sua importanza storica, sociologica, linguistica, che in qualche modo può esserle collegata, ma che non ne costituisce, essenzialmente, quello che è il valore estetico in senso proprio. Inoltre, la società contemporanea ha portato a compimento l’assolutizzazione della figura dell’artista, idolatrato come “creatore” o anche semplicemente come uomo di successo, e per questo affrancato da qualsiasi responsabilità morale e civile: all’”artista” oggi sembra che tutto debba essere permesso, senza canoni estetici, senza regole sociali, senza responsabilità morali».
Se dal fronte dell’estetica passiamo a quello dell’etica, notiamo un processo di «indebolimento», che priva l’etica di fondamenti certi, rendendola mutevole, soggetta ad ogni tipo di revisione in base ai più disparati punti di vista. Non si è mai parlato, come nell’ultimo quarantennio, così tanto di etica. Eppure un così ampio e diversificato discorso è coinciso di fatto con la progressiva affermazione del relativismo etico. Anche la filosofia contemporanea, in larga misura marcata da una visione anti-metafisica, ha trovato una nuova legittimazione nell’etica, come risposta morale alle problematiche poste dal mondo della tecnica. Tutto ciò però si è sviluppato in un contesto relativista, dominato dalla centralità del pensiero di Martin Heidegger e delle sue interpretazioni europee. Questo spirito del tempo è ben riassunto dal filosofo Eugenio Lecaldano: «In modo sempre più chiaro – scrive – nel corso del secolo XX, si è andata sviluppando una linea di pensiero secondo cui non solo non è vero che senza Dio non può darsi l’etica, ma anzi è solo mettendo da parte Dio che si può realmente avere una vita morale. Solo colui che è agnostico o ateo può effettivamente porre al centro della sue esistenza le richieste dell’etica, e solo colui che è senza Dio può attribuire alla morale tutta la portata e la forza che essa deve avere sia nelle scelte che riguardano la propria esistenza, sia in quelle che riguardano l’esistenza altrui». Proprio a questa tendenza si riferiva il teologo Joseph Ratzinger in Introduzione al cristianesimo, opera di portata epocale apparsa nel 1969. Osservava Ratzinger che «l’etica sia, in fin dei conti, ingiustificabile è un concetto che si sta diffondendo e che inizia ad avere un certo impatto. Sul tema dell’etica si sprecano fiumi di inchiostro, un fenomeno che, da un lato, testimonia dell’attualità del problema e, dall’altro, dimostra la confusione imperante attorno a noi in questo momento. Nel suo percorso filosofico Kolakowski ha richiamato molto energicamente l’attenzione sul fatto che la cancellazione della fede in Dio, gira e rigira, finisce per togliere fondamento all’etica». Queste lontane parole non hanno perso nulla del loro originario significato: anzi, rimangono ancora oggi di bruciante attualità.