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SULLE MIE SPALLE


A Padova, nella prima metà del 1900, vive un frate di origini croate: padre Leopoldo Mandic. Non è un bravo predicatore (anche perché balbuziente), ma dedica molto tempo all’ascolto delle confessioni e alla direzione spirituale delle anime. La sua vita si incrocia con quella di tante persone che cercano in lui una parola di sostegno, di consolazione, un aiuto per non perdere la retta via. Andrea, ingegnere che tra le due guerre decide di aprire un’azienda di telecomunicazione, è una di queste persone. Nelle vicissitudini liete e tristi della sua vita e delle persone a lui vicine, la presenza di padre Leopoldo diventa riferimento saldo e sicuro, sostegno forte anche nelle situazioni apparentemente senza via d’uscita e senza speranza. Un frate di piccola statura, ma di grande spessore spirituale, un santo che ha aiutato moltissime persone.
La vita del santo confessore Leopoldo Mandic, cappuccino di Padova, raccontata attraverso le vicende di tante persone che hanno cercato in lui una parola di sostegno, di consolazione, un aiuto per non perdere la retta via. In SALA
Voler presentare lo spaccato di vita di un santo è sempre molto insidioso per sceneggiatori e registi: il rischio, infatti, di enfatizzare la parte “spettacolare” e miracolistica è sempre in agguato. Rischio che in questa pellicola viene fugato. Poche sono le manifestazioni soprannaturali che vengono proposte al pubblico (con effetti speciali modesti, tra l’altro), per dare maggior risalto all’ordinarietà della vita del personaggio. Andrea, la moglie Diletta, l’amico prete Tommaso e gli altri che si presentano sullo schermo sono persone normali che, messe alla prova nella loro vita e nella loro fede, trovano in un frate il sostegno necessario. Per contro anche il piccolo padre Leopoldo è un francescano a tratti un po’ originale nel carattere, ma sopratutto un semplice confessore.
La sceneggiatura è semplice e lineare. Le varie storie vengono rappresentate con qualche salto temporale, ma senza intrecci particolari nella trama. Un punto debole è la caratterizzazione dei personaggi. Se le interpretazioni sono molto buone, nonostante la lunghezza del film, non viene dato molto spazio per delineare la profondità umana e spirituale dei personaggi. San Leopoldo stesso, a tratti, risulta rappresentato in modo quasi macchiettistico. La scelta di rappresentare numerosi episodi delle vite dei protagonisti va, decisamente, a scapito dell’approfondimento delle loro personalità. Le occasioni non mancherebbero: l’innamoramento e il matrimonio, la morte di un bambino, la disperazione fino al tentativo di suicidio, l’amicizia… ma tutte risolte in poche sequenze. Forse questo è il limite più grande della pellicola. La scelta di privilegiare la linea narrativa rispetto alla dimensione riflessiva non lascia lo spettatore pienamente soddisfatto.
Seconda opera che Antonello Bellucco dedica a un santo (è stato regista di Antonio Guerriero di Dio, del 2006), anche questa agiografica. il film è ben confezionato, non presenta sbavature. Fanno eccezione degli effetti speciali che non sono qualitativamente elevati, per il resto il racconto procede spedito, con uno stile pulito senza ricercatezze che appesantirebbero la storia.
Costumi e ricostruzioni storiche sono verisimili e curate, aiutando molto lo spettatore ad immergersi nella narrazione e a lasciarsi coinvolgere dagli eventi.
Film davvero ricco di valori: la famiglia, l’amicizia, la speranza anche nelle difficoltà più grandi, la fede… sicuramente in quest’ambito troviamo il vero punto di forza di questa produzione. In un contesto storico particolarmente complesso come quello della fine della Prima Guerra Mondiale, la crisi del ’29 e i prodromi della Seconda Guerra Mondiale dove la società italiana era ancora profondamente permeata di cristianesimo, proprio questi valori sono stati l’aiuto più grande alla tenuta del sistema sociale e politico della nostra nazione.
In conclusione, anche se non si sta parlando di un film da grandi concorsi cinematografici internazionali, però è consigliabile la visione proprio per la ricchezza di valori e di speranza che le storie dei personaggi e la testimonianza di san Leopoldo infondono allo spettatore.
SULLE ALI DELL'AVVENTURA


Christian si è separato da Paola e si è trasferito lontano dalla città, in Camargue. Suo figlio adolescente Thomas, costretto a passare le vacanze con lui, lontano dai videogiochi, si annoia moltissimo. Non gli resta che seguire il lavoro del padre ornitologo e viene così a scoprire il suo progetto segreto. Vuole guidare delle oche selvagge a rischio estinzione fino in Norvegia, con l’ausilio di un ultraleggero. Anche Thomas si appassiona al progetto e ciò avrà risvolti imprevedibili….
Ispirato alla storia vera dell'ornitologo Christian Moullec, il film di Nicolas Vanier, abile documentarista, ci fa partecipare al salvataggio di uno stormo di oche selvatiche e al recupero degli affetti all’interno di una insolita famiglia. In DVD
Molte delle nostre famiglie si sono spezzate a causa di litigi, incomprensioni e incompatibilità. I divorzi sono diventati una pratica frequente, un effetto considerato inevitabile conseguenza di queste rotture. Non fa eccezione la famiglia protagonista di questo film, dove il padre ha seguito le sue ambizioni (o ossessioni) lavorative sacrificando ogni relazione con la moglie e con il figlio, la madre si è buttata a capofitto in un’altra relazione apparentemente di opportunità più che affettiva mentre il figlio che si è chiuso nel dolore di questa situazione rifugiandosi nei videogames.
Un audace progetto faunistico del padre porta però nuovo entusiasmo nel figlio, non abituato a fare una vita a contatto con la natura e nella fatidica estate in cui i due si frequentano, inizialmente da perfetti estranei, nasce un rapporto nuovo tra loro di grande intesa. A questo punto ci si aspetta che il film continui nei soliti cliché del padre divorziato e del figlio incattivito che diventano poi migliori amici. Ovviamente la vita non è un film e anche in questo caso le cose sono più complesse e realistiche, tanto che anche la madre ritorna al centro della vicenda in maniera preponderante. In conclusione la storia mostra la forza della speranza che ci mostra come nulla debba esser considerato irrecuperabile. Non si può dire mai cosa la vita ci metta davanti, come in questo caso dove un'avventura al limite del credibile (a detta dell'autore ispirata a fatti realmente accaduti) ribalta e supera completamente quell’intiepidimento della vita che si era creata nei protagonisti.
Un film che ci regala diversi spunti di riflessione e Vanier continua a trasmetterci quel messaggio già presente nei suoi lavori precedenti: la natura come lezione di vita, una lezione che si riverbera in modo benefico anche nelle relazioni umane. Il film è adatto come intrattenimento non solo perché si lascia guardare volentieri, ma perché risulta utile per quei genitori che vogliono usarlo come spunto per far riflettere i figli sulle relazioni coniugali, sulla paternità/maternità e per quei ragazzi sensibili, come tanti, ai temi ecologici presenti nella pellicola, ad aver fiducia nei genitori ma anche ad osare, quando si tratta di compiere il bene, di fronte agli ostacoli che si incontrano.
IL CLUB DELLE BABYSITTER


Christy è al secondo anno delle scuole medie a Stoneybrook, nel Connecticut: ha un piglio deciso e determinato, l’opposto della sua amica carissima, Marie Anne timida e insicura. Claudia, di origini giapponesi, non è molto brava a scuola ma disegna bene e spera che sia questa la professione che eserciterà da grande. Stacey è arrivata da poco dai quartieri alti di New York, veste sempre elegante ma ha un problema: soffre di diabete e una mamma apprensiva la tiene sotto controllo. Più tardi si unirà a loro anche Dawn di origini sudamericane, una ragazza solare e sempre pronta a smussare i contrasti del gruppo. Come tenere impegnato il gruppo? E' Christy ad avere una idea geniale: costituiranno un club di baby sitter per le signore e del vicinato, un mestiere da esercitare quando loro non hanno compiti o impegni familiari e naturalmente l’incarico da presidentessa del Club verrà coperto da Christy…
Cinque ragazze del secondo anno delle medie, molto diverse per origine e temperamento, si riuniscono per fondare un club di babysitter. Un’esperienza di vita che le metterà alla prova all’insegna del valore irrinunciabile dell’amicizia. Su NETFLIX
Forte enfasi sul valore dell’amicizia; capacità di fronteggiare le difficoltà con atteggiamento controllato, incluso il riconoscimento dei propri errori quando necessario; inserimento anticipato in un contesto lavorativo e scoperta a dei suoi parametri etici; genitori (quando ci sono) in grado di dare tanto affetto ma privi della capacità di influenzare e di educare i propri figli. E’ questo, in estrema sintesi, il messaggio che ci viene trasmesso dalle 10 puntate di questo serial dove tutte le protagoniste sono ragazze di 12-13 anni.
Christy non ha più visto suo padre da quando era piccola e ha appena saputo che la madre intende risposarsi. La ragazza reagisce mostrando tutta la sua contrarietà. “Fin da piccola mia madre mi ha detto quanto sia importante essere indipendenti e andare avanti con le proprie gambe. Non voglio che mia madre sia infelice ma vorrei che bastassimo a noi stesse”: è questa la sua riflessione quando riesce a trovare la calma per ragionare. Il caso di Christy è emblematico: essere adolescenti nella realtà di oggi vuol dire maturare prima del tempo, proprio perché è venuto meno il guscio protettivo e formativo della famiglia e la sua idea di costituire un Club delle Baby Sitter diventa una palestra per assumersi gli impegni e le responsabilità tipiche di un contesto lavorativo, incluso l’impegno di sviluppare delle strategie di marketing per contrastare la concorrenza. Per fortuna le ragazze non sono semplicemente degli adulti in miniatura ma hanno anche tutte le incertezze (è l’aspetto meglio realizzato del serial) tipiche di una personalità in formazione. Christy aspira a essere il leader del gruppo ma poi scopre che a volte agisce spinta da motivazioni personali e alla fine riconosce che la cosa migliore sia chiedere scusa; Marie Anne, sempre incerta perché condizionata da un padre vedovo, troppo apprensivo/oppressivo, finisce progressivamente per sciogliersi grazie all’intervento delle amiche; succederà lo stesso con Stacey, troppo impulsiva nell’assecondare le sue “cotte” un po’ epidermiche nei confronti di qualche ragazzo ma alla fine riconosce di non sapere ancora cosa sia l’amore, grazie anche all’aiuto di Marie Anne che riesce dolcemente a farle recuperare lucidità di giudizio.
Alla fine, le dieci puntate sono un pragmatico elogio dell’amicizia: dieci esempi di come, a fronte di un problema da affrontare, a un malinteso che si è formato, all’insicurezza che può sopraffare chi ha ancora dodici anni, è solo la solidarietà delle amiche del gruppo che consente di superare le difficoltà. L’amore coniugale ha invece un potere limitato: “un matrimonio è amore e impegno che unisce due persone e due famiglie per sempre…a meno che qualcuno cambi idea, cosa che succede di frequente” è la sintesi che ne fa Christy a due bambini figli di divorziati come lei e la stessa Stacey che dichiara di non sapere cosa è l‘amore, conclude che “le persone che meritano il tuo amore sono quelle che ci hanno sempre amato”. Pertanto c’è un solo amore degno di questo nome: quello materno-filiale e viceversa.
I SOSPIRI DEL MIO CUORE


Shizuku è una ragazza che frequenta l’ultimo anno delle scuole medie e vive con la famiglia in un sobborgo di Tokyo. E’ molto appassionata di libri (le piace sia leggere che scrivere) e si reca spesso in biblioteca per prendere continuamente nuovi libri. Con sorpresa si accorge che nel cartoncino che va compilato per prendere i libri in prestito, il suo nome è sempre preceduto da quello di un certo Amasawa. Incuriosita, inizia delle ricerche, pensando che si tratti di una persona adulta. Un giorno, nel seguire un gatto, si ferma incuriosita davanti a un negozio di antiquariato. Entra e un simpatico vecchietto le mostra antichi oggetti custoditi con molta cura. Finisce per incontrare anche Seiji, il nipote del padrone e con sorpresa scopre che è proprio lui che prendeva in prestito gli stessi suoi libri....
Una ragazza sta terminando le scuole medie; litiga con il ragazzo che in fondo le piace ed è angosciata perché non ha ancora scoperto la sua vocazione. Un bel racconto di formazione sostenuto dalla poesia dei disegni dello studio Ghibli. Su NETFLIX
E’ sempre difficile concentrarsi sul racconto che si sviluppa all’interno di un fllm dello Studio Ghibli anche quando la sceneggiatura, come in questo caso, è di Hayao Miyazaki: le immagini catturano, distraggono l’attenzione. Le scene ci descrivono una metropoli con il suo traffico intenso ma ordinato, treni metropolitani colorati che sfrecciano fra le case, quartieri popolari con piccoli appartamenti-celle (non c’è ascensore, si sale sempre a piedi). Eppure, grazie al disegno dello Studio, si tratta di una realtà-magia che incanta. Perfino all’interno di una cucina siamo attirati dall’armonia dei colori, dalla cura nei dettagli (notiamo la bottiglia sul frigorifero che risplende, illuminata da un pallido sole che filtra dalle tendine). Ma allora, si tratta di un racconto realistico o di una favola? Se ci fosse una risposta a questa domanda, non staremmo vedendo un film di Hayao Miyazaki. Il contesto familiare è ben dettagliato: un padre molto concentrato sul lavoro che con il suo atteggiamento pagato, dona serenità a tutta la famiglia; una madre premurosa ma un po’ apprensiva; una sorella maggiore che stimola Shizuku a fare delle scelte e a prendere in mano le redini della sua vita. Anche il contesto scolastico è ben delineato con alunni disciplinati quando c’è il professore ma poi pettegoli e chiassosi quando sono in pausa. Eppure, nel bel mezzo del racconto, si passa dalla realtà al simbolo. Il protagonista diventa un gatto che Shizuku decide di seguire ed eccola che guarda la vetrina di un negozio di antiquariato: anche noi percepiamo il fascino misterioso di rari oggetti carichi di ricordi che restano vivi solo nella memoria del vecchio proprietario. La realtà si riaffaccia subito dopo e la ritroviamo nelle ansie adolescenziali delle ragazze amiche di Shizuku, che si innamorano, non osano dichiararsi e poi restano deluse perché l’oggetto della loro attrazione sta sospirando per un’altra ma soprattutto, per Shizuku, nell’ansia di trovare quella vocazione professionale a cui dedicare, in un futuro ormai prossimo, la propria esistenza. La rivelazione che Seiji ha deciso cosa vuol fare (il liutaio e quindi frequentare una famosa scuola a Cremona) getta nello sconcerto Shizuku, che teme che la sua passione per lo scrivere possa essere solo un bel sogno.
Le incertezze e le ansie di un’adolescente ci sono quindi tutte, si tratta di un’età tutt’altro che serena ma è altrettanto chiaro, in questo film, che il coraggio di scegliere e di andare avanti viene trovato dalla ragazza nell’affetto di chi le sta vicino e sa comprenderla. Molto bella la figura del padre che, in una riunione di famiglia, di fronte alle incertezze della figlia, le concede di sperimentare per un certo tempo le sue doti di scrittrice, sospendendo la decisione di andare alle scuole superiori, così come la “sorellona” Shiho che comprende quanto sia importante (lei sta per partire per frequentare l’università) per Shizuku avere finalmente una stanza tutta sua dove possa concentrarsi. Ma il culmine viene raggiunto dal vecchio antiquario, che invitato dalla ragazza a leggere per primo e a commentare il romanzo che lei ha scritto, riesce a rassicurarla sulla bellezza di un testo impetuoso e schietto come la sua natura ma al contempo, con dolcezza, riesce a farle capire che c’è ancora molto da lavorare per raggiungere la perfezione. Anche l’analogia usata (il vecchio le mostra una gemma grezza, ancora da estrarre) è molto efficace.
Un film ha grandi valori educativi che fanno impallidire i serial in circolazione sulle nostre piattaforme in streaming ma occorre realisticamente domandarsi sulla possibilità di un suo impatto significativo sugli adolescenti delle nostre latitudini. Mettendo da parte la grande passione di Shizuku per la lettura che potremmo ormai considerare poco realistica, si vede chiaramente dal film che c’è rispetto per le autorità scolastiche, che c’è consapevolezza del valore della famiglia e della continuità fra le generazioni ma c’è un’altra caratteristica che è peculiare in questi lavori che provengono dall’Oriente (non possiamo dimenticare i film familiari di Yasujirō Ozu): l’atteggiamento riflessivo. Riflettere da parte dei genitori per dare sagge risposte, riflessione degli adolescenti per comprendere le proprie potenzialità, la saggezza dei vecchi. E’ l’attitudine a “prendersi del tempo” per osservare e meditare, che anche le sequenze più suggestive come le visite dall’antiquario trovano il suo significato. C’ è quindi un abisso rispetto agli ultimi teendrama di produzione occidentale e se Shizuku entra in crisi perché non ha ancora definito il suo futuro, negli ultimi serial gli adolescenti non guardano in avanti ma restano concentrati su un presente da consumare.
Presso il sito delle Sale della Comunità, è stata compilata una scheda per usare il film come strumento di catechesi. Netflix ha recuperato di recente 21 capolavori dello Studio Ghibli che sono ora disponibili sulla sua piattaforma
LA VITA NASCOSTA


Il film è ispirato alla storia vera di Franz Jägerstätter, un contadino austriaco della regione di Radegund. Felicemente sposato con Fani, dalla quale ha avuto tre figlie, entrambi ferventi cattolici, non approva l’annessione dell’Austria alla Germania di Hitler. Chiamato alle armi e a giurare fedeltà al Fürer, oppone suo rifiuto in nome della fede cattolica. Nonostante l’invito di tanti cittadini di Radegund e delle stesse gerarchie ecclesiastiche (ma con il sostegno della moglie) a trovare una soluzione di compromesso, viene processato per alto tradimento e condannato a morte nell’agosto del 1943. Viene proclamato beato nel 2007.
Meno famoso di Tommaso Moro (Un uomo per tutte le stagioni), il contadino austriaco Franz, realmente esistito, si trova, durante la dittatura hitleriana, di fronte a un dilemma molto simile: seguire i dettami della coscienza anche a rischio della vita o accettare qualche falso compromesso. .IN SALA
Eravamo abituati a dei lungometraggi molto poetici, quasi metafisici, ad opera del regista di Ottawa, ma stavolta supera se stesso. Le narrazioni precedenti a questo film infatti (The Tree of Life, To the Wonder, Song To Song,.. ) hanno sempre regalato spunti di riflessione esistenziali, effettivamente è proprio il marchio di fabbrica di Malick che abbonda con tematiche filosofiche e spirituali, tralasciando la concretezza e la sequenzialità della sceneggiatura. Stavolta invece si affonda nella realtà della storia, in particolare la vicenda di Franz Jägerstätter, realmente esistito, che si è opposto al nazismo e alla seconda guerra mondiale, a motivo della sua profonda fede cattolica.
La trama inizia dalla vita intima e familiare di questo contadino austriaco, totalmente dedito alla moglie, ai figli e al lavoro, oltre che assiduo partecipante della vita ecclesiale del suo piccolo paese. A causa dello scoppio della seconda guerra mondiale, si ritrova durante tutto l’arco del film a lottare tra due scelte fondamentali: se accettare lo stato delle cose in un compromesso con il “meno peggio” oppure non tradire ciò in cui crede profondamente a prezzo della sua libertà, del rispetto degli altri, delle persone che ama di più.
Lo spettatore è fortemente coinvolto in questo dramma interiore, che sicuramente pone molti interrogativi. Talvolta si ammira la fermezza e la coerenza del protagonista contro il “sistema” malato, ma si è portati fino alla conclusione a valutare anche la facilità e la necessità di fare una scelta più comoda rispetto alla sua. Solo nel finale viene palesata la motivazione suprema di Franz, che è la fede nella risurrezione e nella vita eterna e il fatto di non temere chi può distruggere il nostro corpo mortale. Neanche la morte che si prospetta può separare l’uomo dai suoi legami con le persone che ama, ma soprattutto diventa il momento di passaggio per una perfetta unione con Dio, ricercata per tutta la vita.
Una storia così struggente fortunatamente è accompagnata da una magistrale fotografia ultragrandangolare, tipica di Malick, che permette di immergersi nella distesa di paesaggi montani mozzafiato, ma allo stesso tempo si è profondamente vicini ai soggetti non solo nelle manifestazioni esteriori, ma soprattutto nel loro animo, come se potessimo toccare con mano la loro persona. Anche la voce narrante fuori campo dei personaggi, che sono sempre parchi nei dialoghi diretti, invoglia alla introspezione perché le domande e le questioni esistenziali poste, sono anche le nostre. Come se il regista conoscesse le nostre sensazioni e paure, siamo costantemente interrogati e provocati da quello che accade nella narrazione e viene naturale mettersi nei panni del protagonista, perché almeno una volta nella vita ci siamo trovati davanti allo stesso bivio.
Non c’è da aspettarsi che diventi un Blockbuster, considerando il mercato cinematografico odierno, tuttavia il film scorre molto bene, nonostante la durata importante. È un film che può essere visto da tutta la famiglia, anche se il target è rivolto soprattutto ad un pubblico giovane e adulto per la serietà delle tematiche trattate. Certamente siamo di fronte ad un film degno di memoria, anche per gli anni a venire, mai banale, che fino all’ultimo ci regala una speranza di risoluzione positiva, ma anche una tensione alimentata dal dubbio che in fin dei conti la realtà non funziona come quella del grande schermo, anche se in questo caso si.
BAR GIUSEPPE


Giuseppe è il proprietario di una stazione di servizio e del bar annesso, alla periferia di una non specificata zona rurale del Sud. E’ frequentato da gente del luogo ma anche da molti immigrati che Giuseppe considera come dei clienti alla pari degli altri, nonostante le mormorazioni di qualcuno. La morte improvvisa della moglie, con la quale condivideva la gestione della stazione, lo getta nel più cupo sconforto; non è più giovane da poter pensare di lavorare da solo ma non accoglie il consiglio dei due figli Luigi e Nicol di mettersi in pensione e cerca un aiuto, proprio fra le persone che avrebbero più bisogno di quel lavoro. Sceglie quindi la giovane orfana Bikira, un’africana immigrata. Giuseppe è un uomo taciturno ma Bikira ammira, frequentandolo, la sua grande nobiltà d’animo e finisce per innamorarsene, nonostante ci sia fra loro una grande differenza di età...
Un uomo anziano, mite e buono che si chiama Giuseppe, sposa una giovane immigrata. Una rivisitazione attualizzata all’oggi del racconto evangelico che resta a metà fra realismo e simbolismo. Su RAIPLAY
Sono i primissimi momenti dell’alba, annunciata da una linea di luce rossa che si distende lungo tutto l’orizzonte. Due pompe di benzina e un disadorno caseggiato vengono qualificati da un’insegna che si agita al vento come: “Bar Giuseppe” (il richiamo ai dipinti di Hopper è sicuramente voluto). In questo luogo non meglio individuato inizia e continuerà il film, un luogo simbolico per una favola edificante dove si aggrumano tensioni contemporanee e significati universali.
Quale storia abbia voluto riproporci il regista e sceneggiatore Giulio Base (Padre Pio-Tra cielo e terra, Maria Goretti, la regia di almeno una cinquantina di episodi di don Matteo) è subito chiaro: il gestore si chiama Giuseppe ed è bravo nel lavorare il legno. La giovane ragazza si chiama Bikira che vuol dire vergine e dopo il matrimonio lei scopre di essere incinta ma non si sa quale uomo abbia conosciuto. Riproporre la storia di Giuseppe e Maria ai nostri giorni secondo l’iconografia classica (Giuseppe come persona anziana) ma senza l’intervento del soprannaturale costituisce sicuramente un’operazione complessa perché cerca di riproporci in un’ambientazione altamente simbolica, le suggestioni di quella nascita miracolosa presenti in noi fin dall’infanzia ma al contempo le vuole attualizzare, cercando di stabilire una connessione fra quel mondo antico e i nuovi “ultimi”, coloro che sono dovuti emigrare dalle loro terre e sono approdati in Italia.
Anche da parte nostra è necessario separare i due aspetti e se ci concentriamo sul risvolto esclusivamente umano e contemporaneo della storia, la figura di Giuseppe, grazie anche all’interpretazione di Ivano Marescotti, è perfettamente riuscita: un mite, un giusto, che materializza la sua bontà nell’aiutare chi è a disagio nel ritrovarsi in un paese straniero per sfuggire alle violenze del suo paese. E’ un uomo di poche parole perché parla solo quando si deve preoccupare di qualcuno e tace quando percepisce la malizia del suo interlocutore. Per contrasto, intorno a lui, c’è chi non gradisce chi doveva restare in Africa e chi spande maldicenze nei confronti di Bikira, la “furba” che ha abbindolato il vecchio ingenuo.
Su fronte più mistico, sul rievocare la storia di Maria e il Giuseppe del Vangelo, trasferendola al giorno d’oggi, il giudizio deve essere lasciato alla sensibilità individuale A me personalmente dispiace che Giuseppe continui a esser visto come un vecchio, buono e mite, che preferisce subire piuttosto che reagire.
Giuseppe era un giusto, con una forte fede in Dio. Ma avere fede vuol dire anche coltivare la speranza in un Dio che non abbandonerà mai nessuno (decise da solo, prima dell’arrivo dell’angelo di ripudiarla in segreto) e avere grande forza d’animo nelle avversità, pienamente dimostrato nella sua funzione di custode di Gesù e Maria, durante la fuga precipitosa in Egitto. In un uomo così solido ed equilibrato non era necessario inventarsi l’espediente di considerarlo un vecchio per alleggerire il suo impegno alla castità. Occorre aggiungere che un matrimonio tra un vecchio e una giovanissima ragazza non risulta particolarmente gradevole.
Il film ha uno sviluppo lineare, concentrandosi sugli aspetti essenziali del racconto e se abbiamo già accennato alla scenografia che richiama i quadri di Edward Hopper, certe sequenze fra i vagabondi del paese ricordano il pauperismo presente negli ultimi lavori di Ermanno Olmi. Se la recitazione di Ivano Marescotti è ottima, la figura di Bikira (Virginia Diop) fornisce la freschezza giovanile che è richiesta al personaggio ma poco di più mentre risulta sopra dalle righe la figura del figlio Luigi (Michele Morrone) tossicodipendente e senza fissa dimora.
Disponibile su Raiplay
HEARTLAND (prima stagione)


Nelle montagne rocciose di Alberta, in Canada, Heartland è un ranch che alleva cavalli e funge da “clinica” per quei quadrupedi che sono diventati ribelli per qualche shock che hanno subito, grazie alle abilità della signora Marion. In un grave incidente Marion muore: il ranch continua a essere gestito dal nonno materno Jack, dalla quindicenne Amy, che ha ereditato le doti “curative” della madre. Arriva anche Lou, la sorella maggiore di Amy, che ha lasciato il suo lavoro a New York per dare una mano, come amministratrice, per rimettere in piedi gli affari del ranch. Si unisce a loro anche Tyler un ragazzo che è stato condannato dal tribunale a svolgere un periodo di lavori utili sotto tutela. Il suo compito è quello di aiutare nonno Jack a tenere in ordine le stalle…
Nel ranch Heartland, due sorelle e il loro nonno cercano di portare avanti quella che è una caratteristica unica della loro fattoria: un luogo dove cavalli che hanno subito traumi possano ritrovare il loro equilibrio. Storie di uomini, donne e cavalli nella serie più longeva della televisione canadese. Su Raiplay
Heartland, disponibile su RaiPlay, arrivata alla tredicesima stagione, è la serie televisiva più longeva della televisione canadese ed è stata finora venduta alle reti di altri 25 paesi, fra cui l’Italia. Non è da escludere l’arrivo di nuove stagioni.
E’ indubbio il fascino (e anche quel po’ di invidia) che nasce nel vedere questa famiglia che vive tutto il giorno all’aperto, in contatto con una natura intatta, il cui principale impegno è prendersi cura di quel magnifico animale che è il cavallo. Il cavallo è stato da sempre un argomento preferenziale per la letteratura giovanile: i film che sono stati realizzati si sono sempre rifatti a libri di successo (Black Beauty , Black Stallion, War Horse, Seabiscuit,…) fino a quello forse più famoso di tutti: L’uomo che sussurrava ai cavalli. “Io non sussurro ai cavalli, io li ascolto!” esclama Amy un po’ infastidita quando le chiedono qual è il suo segreto nel comprenderli e guarirli, sapendo che è proprio quello il confronto più prossimo nella memoria collettiva.
La struttura della serie è semplice: ogni episodio comporta la risoluzione del caso difficile di un cavallo che è diventato indomito mentre sullo sfondo si dipanano le vicende dei componenti della famiglia Flaming: le tre sorelle, il nonno, il padre che tanti anni prima si è allontanato, fra espressioni di affetto, occasionali contrasti e immancabili innamoramenti.
La storia si sviluppa con calma, un po’ sullo stile delle soap opera, nessun personaggio è veramente cattivo, né ci sono contrasti che non si possano sanare e che si chiudono con una sincera espressione di pentimento.
E’ indubbio che il longevo successo della serie è da attribuire alla calda simpatia dei protagonisti, che diventano degli “amici di famiglia” per lo spettatore che vuole gustarsi l’evolversi delle loro storie giorno per giorno (anno per anno) ma c’è forse qualcosa di più.
La famiglia Flaming è paladina di un codice morale che potremmo sintetizzare con lo slogan: “prendersi cura di”. Prendersi cura dei cavalli senza badare a quanto tempo ci vorrà, dando loro il nutrimento e le cure migliori, ponendo sempre il denaro al secondo posto. Ma vuol dire sopratutto prendersi cura delle persone, come è stato accettare Tyler, condannato dal tribunale a un periodo di lavoro sotto tutela. Si determina in questo modo un circuito virtuoso dove prendendosi cura dei cavalli, si progredisce anche nell’attenzione alle persone.
E’ esemplare, come effetto di contrasto, il sesto episodio, quando arriva nella fattoria, non atteso, Carl, il fidanzato newyorkese di Lou. Già dal suo arrivo viene caratterizzato come un “diverso”, colui che è “il topo di città”, abituato a non sprecare un secondo del suo tempo, che tiene sempre all’orecchio l’auricolare del suo cellulare perché nessuna chiamata vada persa. Le sue intenzioni appaiono serie: chiede a Lou di sposarlo ma lei scopre ben presto che Carl si è già dato da fare per procurare per lei un colloquio di lavoro a Chicago nella stessa azienda dove si è già trasferito lui, lasciando New York. Forse in lui c’è dell’affetto ma si è comportato nei suoi confronti in modo strumentale agendo secondo il proprio vantaggio, senza trattarla come persona sua pari, chiedendo previamente la sua opinione. Per la morale che si pratica in Heartland, si tratta di una posizione inaccettabile. Interessante anche l’etica sessuale praticata nella famiglia Flaming: a Carl, durante il suo soggiorno a Heartland, viene assegnata una stanza diversa da quella della fidanzata e quando lui, di notte, cerca furtivamente di raggiungerla, viene bloccato da oche starnazzanti poste strategicamente davanti alla stanza di lei.
La funzione di Heartland può esser assimilabile a quella di un monastero, posto in un luogo lontano dalla vita convulsa delle metropoli di oggi, dove viene posta grande attenzione alle relazioni familiari e alla cura di chi ha bisogno di rimarginare le ferite fisiche o dell’animo, uomini o animali che siano.
THE ENGLISH GAME


James Walsh, proprietario del mulino di Darwen e del Darwen Football Club, decide di pagare segretamente due calciatori scozzesi, Fergus Suter e Jimmy Love, per rinforzare la squadra in vista dei quarti di finale della FA Cup 1879. Nessuna squadra di operai ha ancora vinto la coppa ed è questo il suo obiettivo ma occorre prudenza perché la Federazione prevede in campo solo giocatori volontari. Gli avversari sono gli Old Etonians, una squadra composta da gentiluomini dell'alta borghesia londinese e capitanata da Arthur Kinnaird
Nel 1879, in Inghilterra, il calcio è ancora agli inizi, uno sport elitario non retribuito. Ma è anche il tempo della crescita tumultuosa di una nuova realtà industriale che accoglie tanti lavoratori desiderosi di appassionarsi a questo nuovo sport. Su questo sfondo sono tanti i personaggi positivi, che costruiscono un racconto semplice e scorrevole. Su Netflix
Questo serial, in sei puntate su Netflix, racconta la storia di due giusti: Arthur Kinnaird e sua moglie. Arthur è un lord, con tutti i privilegi che gli competono ma ha anche occhi per guardare e un cuore per comprendere. E’ un nobile inglese fin nel midollo delle ossa, i suoi modi sono cortesi, il suo comportamento controllato, impeccabile nel vestire, ama il calcio e lo ha sempre concepito con un passatempo per la gente come lui, perché esprime una competizione leale, espressione di energia fisica e di destrezza. Ma Arthur è in grado di avvicinarsi e comprendere anche il mondo dei lavoratori, che nella tumultuosa crescita dell’industria di fine ottocento sono soggetti a salari fluttuanti in funzione dell’andamento del mercato e possono venir licenziati senza preavviso. Arthur riesce a trascendere la propria situazione e a comprendere che per lasciar giocare anche i salariati, occorre accettare che quella del calciatore diventi una professione retribuita.
La moglie Margaret si rivolge al fronte femminile con uno sguardo acuito dalla sofferenza per non aver potuto portare a termine una gravidanza e finisce per scoprire la dura realtà di quelle donne delle classi più umili che hanno avuto un figlio senza esser sposate e per questo vengono allontanate dalla società e da qualsiasi lavoro.
Attraverso questi due protagonisti Juian Fellowers, già autore di Downton Abbey, ritorna a esplorare tempi e ambienti a lui cari, anche se la classe dei nobili e quella dei salariati non si trovano su piani differenti dello stesso castello ma in squadre antagoniste del football allora nascente. Secondo un’impostazione narrativa che già conosciamo dai suoi lavori precedenti, per Fellowers non ci sono buoni e cattivi ma sempre persone che sanno riflettere e che cercano di fare la cosa più giusta
Anche nel mondo dei “poveri” e dei borghesi sono presenti persone degne di ammirazione: Fergus Suter cerca di affrontare nel miglior modo possibile la sua grave situazione familiare; il suo amico fraterno Jimmy è l’uomo buono in assoluto, che non sa mai dire di no a nessuno; James Walsh è un imprenditore che comprende che i suoi affari prospereranno solo se ci sarà una stretta intesa con gli operai che lavorano nel suo mulino.
Da un quadro così globalmente positivo possiamo concludere che a Lord Julian Fellowers interessa soprattutto rappresentare la nobiltà d’animo delle persone, intesa come prerogativa di chi è ricco come di chi è povero ma forse lo sceneggiatore lascia trasparire in questo serial, forse più che i Downton Abbey, che il suo cuore batte per quella classe che per prima ha cercato di rendere la nobiltà d’animo una qualità fondante. Nell’ultima puntata della serie, in una cena prima della partita finale, Arthur Kinnaird, contornato dai compagni di squadra, dice che loro dovranno dare, per il giorno seguente “:uno spettacolo dignitoso, un comportamento degno di un gentiluomo, perché siamo gentiluomini e domani noi andremo a vincere come gentiluomini”
Autorevoli testate della stampa anglo-americana non hanno parlato male di questa fiction, ne hanno parlato malissimo.
The Guardian la definisce una serie terribile, che ha fatto autogol. L’autrice dell’articolo fa notare che Fellowes non ha scritto da solo la sceneggiatura, ci sono dei co-autori ma “li lascerò anonimi perché potrebbero essere giovani e avere famiglie”.
The Exquire incalza: “Alcuni dialoghi sono “gommosi” (chewy) oltre ogni immaginazione”.
In effetti la struttura narrativa è semplice, le scene-chiave delle partite di calcio non sono particolarmente emozionanti e non viene nascosta la volontà di raccontare una bella storia su quella che è una gloria inglese ma probabilmente, ciò che ha fatto indispettire di più questi recensori, è l’aria di “buonismo” (loro direbbero così in italiano) che traspare. In particolare, fra i tanti “difetti”, c’è anche il mostrare donne che vedono in una maternità compiuta la fonte principale della loro felicità.
DOC - NELLE TUE MANI


Andea Fanti, primario di Medicina Interna di un importante ospedale di Milano, è un bravo dottore esigente e rispettato dai suoi colleghi ma ha un comportamento ruvido nei confronti dei pazienti. La sua vita resta appesa a un filo quando il padre di un paziente, sconvolto per la morte del figlio, gli spara un colpo in testa. Ripresosi dal coma, si accorge di aver perso la memoria dei suoi ultimi 12 anni. Lorenzo, lo psichiatra dell’ospedale, ritiene sia giusto per lui restare in ospedale, un ambiente a lui familiare, con mansioni senza responsabilità, nella speranza che riesca un giorno a ritrovare la memoria. Per questo motivo non gli rivela certi aspetti della sua vita privata e professionale. Andrea finirà così per scoprirli a poco a poco: si rivolge ad Agnese, la direttrice dell’ospedale, come se fosse ancora sua moglie (in realtà sono separati da tempo), tratta la dottoressa Giulia con distacco professionale, dimenticando che appena giorni prima aveva con lei una relazione sentimentale…
Un primario di ospedale, dopo un incidente, perde la memoria dei suoi ultimi 12 anni. E’ l’occasione per correggere la sua vita, instaurare un rapporto più umano con i pazienti, scoprire che si può andare avanti aiutandosi a vicenda
Appena scopriamo, nel vedere la prima puntata della serie, che Andrea non ricorda più gli ultimi 12 anni della sua vita, viene spontaneo esclamare: “ancora!”. Avevamo visto da poco il serial La strada di casa, dove l’imprenditore agricolo interpretato da Alessio Boni si risveglia dal coma dopo 5 anni, cerca di riscoprire cosa sia successo nel frattempo che ecco ci viene presentata (anche se sappiamo che DOC si è ispirato a fatti realmente accaduti) una trama molto simile. Scopriamo anche che questo dottor Andrea è molto acuto nelle diagnosi ma usa toni distaccati con pazienti e colleghi; ancora una volta ci scappa di dire: “ancora!”, perché il richiamo a Doctor House – Medical Division è molto forte. Quando poi assistiamo a sequenze concitate in sala di diagnosi dove l’equipe di dottori ha pochi secondi per recuperare un paziente che risulta gravemente compromesso, non possiamo non ricordare le sequenze drammatiche in sala operatoria che sono state il piatto forte della serie E.R. – medici in prima linea.
Occorre aggiungere che nel primo episodio, che ha, come sempre, il suo compito di impostare tutta la serie, si percepisce quell’horror vacui, tipico di molti serial italiani, dove vengono innescate tante bombe narrative a effetto ritardato che esploderanno nelle puntate successive e che hanno il compito di mantener sempre desta l’attenzione del pubblico. Oltre agli intrighi amorosi, alle sventure che affliggono la vita del protagonista, alle rivalità professionali, si sta sviluppando anche un complotto ai danni dello stesso ospedale.
Tuttavia la serie, nelle prime puntate, ha avuto un notevole successo. Più di 7 milioni di spettatori nella prima puntata e quasi 8 milioni nella seconda. Un successo pienamente meritato perché i pregi e l’originalità della serie non vanno cercati nel meccanismo dell’intreccio ma in altri due aspetti: nel messaggio che ci viene trasmesso e nell’approfondimento dei personaggi.
Il dr House ci teneva a mantenere un certo distacco con i pazienti perché pensava che un rapporto più stretto con loro lo avrebbe distratto dal suo obiettivo primario: la ricerca degli indizi che lo avrebbero portato a una giusta diagnosi. Anche in E.R. si manteneva un certo distacco fra efficienza professionale e affetti privati. In questo DOC, l’approccio proposto per un corretto rapporto fra medico e paziente è opposto: per riuscire a curare bene il paziente (to cure, in inglese) bisogna rivolgersi a lui con un atteggiamento di attenzione e partecipazione umana alle sue infermità (to care), entrare in quella confidenza che consente al paziente di confidarsi e avere piena fiducia nel dottore. La funzione di Andrea, non più dottore abilitato ma semplicemente Doc per i colleghi, nelle varie puntate, è proprio questa: avvicinarsi ai pazienti per riuscire a toglier loro quella maschera di riservatezza che non consente di portare a termine una diagnosi approfondita dei suoi mali. L’apertura deve essere reciproca, sottolinea la serie: non sono solo i medici che debbono metter da parte il loro distacco professionale ma anche i pazienti: sono molti i casi presentati di pazienti pronti a mentire pur di lasciar presto l’ospedale o, al contrario, pronti a enfatizzare i loro mali presunti per ottenere maggiore attenzione.
Il secondo pregio della serie è nella definizione dei personaggi. Il baricentro dell’attenzione è ovviamente Andrea (Luca Argentero), impegnato a ricostruire i suoi ultimi 12 anni di vita (ma anche con la possibiltà di correggere i suoi errori) ma tutti i personaggi di cui veniamo a conoscenza hanno una storia, hanno sensibilità diverse, hanno pregi ma anche difetti e soprattutto si evolvono: sbagliano ma si correggono. Siamo lontani dai serial manichei dove ci sono i cattivi tanto cattivi e i buoni tanto buoni, ingessati nella maschera che debbono portare. Come il ragazzo diventato padre nella prima puntata, che è aiutato da Andrea ma poi è lui stesso a ridare coraggio al DOC, nessuno può dire: "tutto è perduto" ma c’è sempre una soluzione perché c’è qualcuno disposto a prendersi cura di te. La regia si mantiene in equilibrio (non sempre), evitando di scivolare nel patetico e, stranamente, realizza frequentemente dei primi piani delle mani dei protagonisti
CARO GESU' . LE DOMANDE DEI BAMBINI


Bambini e ragazzi dagli 8 ai 12 anni, attraverso brevi clip, formulano le loro domande che vengono poi raccolte e commentate dalla catechista Cecilia Falcetti. In ogni incontro, della durata di dodici minuti, si affronta un tema centrato su una parola chiave: la noia, la tristezza, la paura, l’amicizia, gli angeli custodi e in particolare ci sono domande collegate al momento difficile che stiamo vivendo. Disponibile in diretta su TV2000 dal lunedì al sabato alle 12.20 e alle 17.30 su TV2000 e su Youtube per visionare le conversazioni precedenti
Ogni giorno, da lunedì a sabato, una catechista ci mostra come si può parlare di Gesù ai ragazzi di 8-12 anni anche in questi momenti difficili. Una utilissima iniziativa di TV2000 disponibile anche su Youtube
Nel tempo del Coronavirus i ragazzi stanno in casa. I più piccoli sono felicissimi di poter avere papà e mamma tutto il giorno con loro (magari a turno), i più grandicelli sentono la mancanza dei loro compagni di scuola, con i quali fanno almeno lunghe video-conversazioni. In questa occasione veramente unica dove i genitori, fra una telefonata di lavoro e l’altra, possono dedicarsi ai figli, perché non intrattenerli con un po’ di catechismo fatto con allegria, su temi che stanno loro a cuore?
Un ottimo spunto ci vene offerto da questa trasmissione che va in onda ogni giorno su TV2000 dove una catechista esperta, Cecilia Falcetti, risponde alla domande che ogni giorno un bambino, nella fascia 8-12 anni, le sottopone. La disponibilità di queste conversazioni, anche su Youtube oltre che sull app TV2000, offre il vantaggio di poter scegliere il tema che più sentiamo vicino. “Perché i nonni sono più a rischio di noi e non possiamo stare con loro?” (31 marzo). “In questi giorni, dove sono finiti gli angeli custodi di tutte le persone che stanno male?” (30 marzo). “Le chiese sono vuote, non si può partecipare alla messa; cosa possiamo fare?” (28 marzo). “Dove possiamo trovare il coraggio per affrontare il Coronavirus?”e così di seguito.
La catechista adotta un linguaggio facilmente comprensibile e si muove nell’ambito del bagaglio culturale disponibile, prevedibilmente, a quell’età. Viene citato il Principe Felice, si parla delle logiche dei videogiochi e delle partite di calcio oppure del cane grigio che tante volte ha protetto don Bosco.
Molto belle, per seguire il racconto e per il pubblico che ascolta, le illustrazioni e le piccole animazioni di Stefania Pedna