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UN DIO VIETATO


Quando nel 1931 fu inaugurata la cosiddetta Seconda repubblica spagnola, per i cattolici della penisola iberica iniziarono tempi di feroce persecuzione: si contano più di 6.000 morti (un quarto dei quali sono stati beatificati e 11 canonizzati). Nell’agosto del 1936, appena iniziata la Guerra Civile, a Barbastro, vicino a Saragozza, 51 tra seminaristi e sacerdoti Missionari Claretiani vengono sequestrati e costretti a scegliere tra l’apostasia (della fede e della vocazione) o la morte.
A Barbastro, nel 1936, all’inizio della guerra civile, 51 fra sacerdoti e seminaristi, vennero uccisi dai miliziani. Il film riscostruisce il loro martirio attenendosi rigorosamente ai fatti accaduti. Su Youtube in lingua spagnola; su DVD in italiano
Il vescovo, ormai prigioniero nel seminario, contempla da una finestra il saccheggio della cattedrale e il falò che i miliziani hanno realizzato bruciando tutti gli oggetti sacri. “Sempre lo stesso errore – commenta - vogliono un mondo migliore costruendolo con il sangue e con il fuoco. Mi chiedo cosa abbiamo fatto di male”. Lo stesso vescovo sarà il primo a esser prelevato, torturato e poi ucciso con tre colpi di pistola alla tempia ma farà ancora in tempo a dir loro che li perdona.
Il film, autoprodotto dalla congregazione claretiana, si vuole attenere con rigore a quanto è realmente accaduto, pur evitando sequenze impressionanti, perché basato su di una sceneggiatura preparata a partire da alcuni scritti rinvenuti alla fine della guerra civile tra i diari dei martiri, riuscendo così a portare alla conoscenza degli spettatori anche alcuni aspetti dell’interiorità di fede e della psicologia dei personaggi.
Il risultato è di grande equilibrio: tanto ai rivoluzionari quanto ai religiosi viene dedicato uno spazio consono per permettere una migliore comprensione della situazione, dei personaggi e delle dinamiche relazionali senza semplificare troppo e senza trattare in modo superficiale un argomento tanto delicato.
Il film ha come tre protagonisti che avanzano in modo progressivo verso la tragedia finale: i miliziani, i sacerdoti con i seminaristi e la gente di Barbastro. All’inizio non ci sono le avvisaglie di quello che sarebbe accaduto dopo: il colonnello José Villalba Rubio si impegna a garantire l’ordine in città; fra gli aderenti al Fronte Popolare c’è ancora chi, come Eugenio Sopena, pur desiderando portare a termine un totale rinnovamento della società in chiave marxista, è cosciente che l’ordine deve essere garantito e che la vendetta per vendetta porta solo altro odio. Sarà proprio la loro partenza verso Barcellona, per combattere sul fronte, a lasciare la gestione della città in mano ai più fanatici.
Un capitolo a parte è quello dei giovani seminaristi. La testimonianza che riescono a dare è grande. La vita di preghiera mai abbandonata (anche in situazione precaria), la comunione con ostie consacrate fortunatamente trafugate, la fraternità vissuta con affiatamento e solidarietà, diventano gli strumenti per superare la paura del dolore e della morte, forza per resistere anche alle torture e alle umiliazioni. Quella di abbracciare il martirio non è una decisione semplice e presa a cuor leggero né dai superiori né dai seminaristi: più volte viene data loro la possibilità di salvare la vita, abbandonando l’abito talare, ma nonostante la giovane età, i giovani decidono di conservare la fede a scapito dell’esistenza terrena.
Infine c’è il terzo protagonista, il più oscuro: la folla. Una folla che saccheggia le chiese, che esulta quando i seminaristi salgono su un camioncino per andare a morire. “Che cosa abbiamo fatto di male?” è la domanda che si pone il vescovo senza poter ricevere risposta. Anche un seminarista, figlio di contadini, si domanda come mai tanti altri di origine contadina come lui nutrano tanto odio verso la Chiesa. Se il film costituisce una bellissima testimonianza di martirio in nome della fede, lascia un vuoto narrativo su questo aspetto. Si tratta di una domanda che non ha solo un valore storico ma attuale: come mai la congregazione claretiana ha dovuto lei stessa produrre il film? Questo scorcio di storia, anche se dolorosa, non poteva avere un significato per l’intera nazione e per il resto del mondo?
Le interpretazioni sono molto convincenti anche se non tutti sono dei professionisti; tecnicamente, il film è curato, ma mostra talvolta il basso budget che ha avuto a disposizione. Resta evidente che lo scopo non è quello di concorrere per premi internazionali ma di lasciare alla memoria dei posteri una testimonianza cristiana di alto profilo.
Un film che si unisce ad altri che hanno portato alla luce i fatti legati alle persecuzioni operate durante la guerra civile spagnola: basti pensare a There be dragons di Roland Joffé del 2011 o richiama altri casi di eroico martirio come quello dei monaci benedettini in Algeria nel 1996 ricordato in Uomini di Dio
CHIARA LUBICH - L'AMORE VINCE TUTTO


1943. Trento si trova sotto i bombardamenti degli Alleati. Chiara, una giovane maestra delle elementari, deve guidare in fretta i suoi alunni verso il rifugio. Terminato l’allarme, corre a trovare i suoi genitori che sono fortunatamente illesi. Anche suo fratello Gino, medico all’ospedale, è incolume e sta prestando le sue cure ai feriti che stanno arrivando numerosi. Di fronte a tante morti e a tante rovine, di fronte al fratello o a suoi conoscenti che decidono di combattere su fronti opposti, chi unendosi ai partigiani e chi confermando l’alleanza con i tedeschi, Chiara sente che solo Dio è il riferimento unico e sicuro e decide di consacrarsi tutta a Lui, restando laica, intervenendo proprio là dove Dio non sembra presente. Con il tempo, riesce a trasferire il suo entusiasmo ad altre ragazze. Assieme costituiscono una piccola comunità che si organizza per aiutare con gesti concreti le famiglie di Trento che si trovano in difficoltà. Non tutti apprezzano i suoi comportamenti, il suo interpretare il Vangelo senza la guida di un sacerdote e viene convocata dal vescovo...
Una ragazza di Trento durante la guerra, scopre la sua vocazione e, come cristiana, si impegna a contribuire alla fratellanza universale. I primi passi di Chara Lubich e del movimento dei Focolari raccontati con passione ma evitando l'agiografia. Su RaiPlay
Opere come questa svolgono un importante ruolo: far conoscere al vasto pubblico in modo semplice ma chiaro, potremmo dire popolare, una persona come Chiara Lubich e una realtà come il movimento dei Focolari, un riferimento ineludibile nel mondo contemporaneo per la diffusione del bene e della fratellanza universale. Saggia la decisione di non voler costruire, nelle due ore di durata del film, una sorta di enciclopedia delle vita e del pensiero della serva di Dio Chiara ma solo il periodo triestino, la genesi della sua trasformazione in donna dedicata al servizio degli altri in nome del Vangelo. Dispiace forse che non ci siano riferimenti al co-fondatore Igino Giordani, così importante per la definizione della spiritualità del movimento ma le esigenze di compattezza costringono a dei sacrifici.
Ovviamente si tratta di un prodotto di divulgazione, che non può eludere le regole più elementari dell’intrattenimento: stimolare l’interesse e non annoiare. Purtroppo capita spesso che opere che raccontino la vita di un santo o di una santa non abbiano questi requisiti. Questo Chiara Lubich evita il doppio pericolo: di non stimolare l’interesse dello spettatore e di risultare palesemente agiografico. Il merito va in particolare a Cristina Capotondi che interpreta Chiara riuscendo a esprimere dolcezza, spirito contemplativo, serena accettazione delle incomprensioni subite ma risolutezza quando deve affermare verità che scaturiscono dal Vangelo. Una Chiara più somigliante all’originale avrebbe dovuto risultare più determinata, più energica ma questo è un destino comune a molti santi riprodotti in pellicola (Madre Teresa di Calcutta, Don Bosco,..): sembra faccia parte dell’iconografia codificata dei santi apparire dolci e simpatici, senza spigolature causate da una spesso ferrea determinazione.
Occorre poi considerare decisivo il contributo della sceneggiatura (il fatto che nella lista degli sceneggiatori ci sia Francesco Arlanch - DOC, Sant'Agostino,..- costituisce una garanzia) per evitare il rischio di scivolare nell’agiografia e al contempo di non interessare lo spettatore. La storia si muove all’interno di una forte dinamica di contrasti: se Chiara cerca di ispirarsi attraverso una lettura diretta del Vangelo, si creano incomprensioni se non contrasti con i sacerdoti che frequenta; se riesce a costituire un gruppo affiatato di ragazze che seguono il suo esempio, c’è anche colei che giudica impositivi i suoi atteggiamenti e decide di andarsene; se invita le sue compagne a frequentare, per scopi di carità, i quartieri più poveri di Trento, una di loro viene colpita da una grave infezione. Se ai tempi della guerra c’è chi decide di farsi partigiano, c’è anche chi considera questa posizione un tradimento e mantiene l’alleanza con i tedeschi. Se le iniziative caritative del primo focolare vengono apprezzate dalla popolazione triestina, Chiara viene convocata da una commissione del Vaticano ed è costretta a dimettersi dalla presidenza del movimento.
Quasi come un percorso parallelo, mentre si sviluppano tutti questi eventi esterni, viene lasciato spazio per mostrare Chiara che riflette sulla spiritualità a cui ispirarsi. Si tratta di una sintesi che viene sviluppata attraverso la lettura del Vangelo: “ Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” e l’abbandono di Gesù sulla croce diventa espressione genuina del suo carisma verso la fratellanza universale: “Se anche Gesù sulla croce si è sentito abbandonato dal Padre, allora tutte le persone che si sentono lontane da lui, tutte quelle che non credono in Dio, sono come Gesù abbandonato e noi dobbiamo amarli, così come sono” . Resta inoltre ben evidenziato il suo sentirsi fondatrice di nulla, perché tutto è stata opera di Dio.
Se questo TV-movie ha il pregio di governare una materia complessa grazie anche al calore umano che esprimono tutti i personaggi, principali e secondari, resta curioso l’eccesso di simbolismo adottato: la prostituta morta che stringe ancora fra le mani la foto del suo piccolo, Il libro del Vangeli che va a coprire la Critica della Ragion Pura di Kant, Il garofano rosso che è segno per Chiara della presenza, vicino a lei, della Madonna. Resta inoltre strano l’insolito abbigliamento di Chiara e della sue seguaci, sempre ordinato e pulito, anche quando, in tempo di guerra, tutti cercavano di vestirsi come potevano.
I risultati sono subito arrivati: alla trasmissione del film-TV in prima serata su RaiUno erano presenti, secondo l’indice di ascolto, 5.641.000 spettatori. Share del 23%.
THE 33


Miniera di San José, Cile, 2010. Durante una normale giornata di lavoro in miniera una lastra di pietra crolla a 700 metri di profondità e va ad ostruire l’unica via di uscita per i minatori. Trentatre di loro restano intrappolati in quella grotta senza contatti con la superficie. Fatti diversi progetti e tentativi, dopo 69 giorni tutti gli operai vengono liberati in una delle operazioni di salvataggio rimaste uniche nella storia. La preoccupazione dei familiari, la tensione del mondo intero, la gioia di rivedere vive tutte le persone coinvolte nell’incidente.
Miniera di San José, Cile, 2010: la ricostruzione del dramma vissuto da 33 minatori imprigionati a 700 metri di profondità. Una storia di intraprendenza, coraggio e fede. Su PRIME VIDEO
Un gruppo di minatori, salutati i familiari, sale sul pulmino che li porterà in fondo alla miniera. La luce del sole scompare ben presto. Il pulmino scende lungo uno stretto sentiero che si avvita a spirale e sembra non terminare mai. Ogni tanto, ai bordi, si vedono degli altarini improvvisati che ricordano, con una fotografia, coloro che non sono più tornati a casa. Uno dei minatori sul pulmino, alla sua prima esperienza, ha il respiro affannoso, si sente soffocare. Con questa sequenza, molto coinvolgente, inizia la storia dei 33 minatori di San Josè e del loro incidente. Nel 2015 il premio Pulitzer Hector Tobar l’aveva raccontata nel suo libro Deep Down Dark (tradotto nella versione italiana: La montagna del tuono e del dolore). Nello stesso anno il libro viene sceneggiato e diventa questo film diretto dalla regista messicana Patricia Riggen.
Il racconto è fedele alle testimonianze dei superstiti. Il montaggio, alternarnando quanto sta succedendo sottoterra a quanto accade in superficie, riesce a far percepire al pubblico i risvolti e le dinamiche di quella vicenda: da una parte i lavoratori che si trovano sepolti vivi a 700 metri di profondità con circa 40°C di temperatura e cibo sufficiente solo per alcuni giorni; sulla superficie,le donne dei minatori che tentano di discutere con i gestori della miniera per tentare di salvare i loro mariti, figli, padri. Di fronte a una vicenda così dolorosa che cresce giorno per giorno nell’evidenza dell’opinione pubblica e all’incapacità della società mineraria di affrontare la situazione, è il governo che si trova a dover decidere il da farsi: che soluzione tecnica adottare, di quali collaborazioni internazionali avvalersi per tentare l’impossibile e quale immagine del Cile proporre sulla scena internazionale.
Su entrambi i livelli nei quali si svolge la storia, c’è un protagonista a fungere da leader: Mario Sepulveda (interpretato da Antonio Banderas) che mantiene viva la speranza lì dove non sembra esserci nessuna possibilità di sopravvivenza, Maria Segovia (interpretata da Juliette Binoche) che “guida” le mogli dei lavoratori nel richiedere all’azienda di tentare il salvataggio. Determinante è anche il giovane Ministro delle Miniere Laurence Golborne (interpretato da Rodrigo Santoro) che si prende a cuore il dramma di questi minatori che non conosce ma che fa tutto quello che è in suo potere per estrarli vivi dal sottosuolo.
Se queste interpretazioni sono riuscite e convincenti, gli altri personaggi finiscono per passare in secondo piano e, in alcuni casi, fin troppo stereotipati nel genere del disaster movie come, per esempio, il personaggio che prevede il disastro ma resta inascoltato o quello che non crede nel pericolo imminente fin che non si verifica il crollo. La fotografia è particolarmente curata, nell’alternanza di sole all’esterno e di oscurità nel sottosuolo e si fa apprezzare la colonna sonora: una delle ultime composte da James Horner (vincitore di due premi Oscar nel 1997 come autore della colonna sonora di Titanic) morto in un incidente aereo quattro mesi dopo la fine delle riprese del film.
La pellicola riesce ad esprimere importanti valori umani e religiosi.
La povertà esteriore dei minatori, che contrasta con la loro ricchezza interiore; la capacità di condividere e di sacrificarsi per il benessere di tutto il gruppo. Il battersi per la giustizia, incarnato dalle mogli dei minatori. Ma forse, la grande verità che, da un punto di vista umano, il film riesce a esprimere, è la dimostrazione che si ottengono veramente dei risultati solo quando si mette in gioco tutto se stessi: iI team di superficie, capeggiato dal texano Greg Hall, titolare della Drillers Supply Internazional e dal giovane ministro delle Miniere, riesce con tenacia e intelligenza nell’intento prodigioso di individuare il punto dove si erano rifugiati i minatori, anche se trivelle si rompono continuamente e le mappe a disposizione sono imprecise.
La fede cristiana che ha sempre alimentato la speranza dei minatori e ha dato loro la forza di resistere per due lunghissmi mesi (si veda come all’interno dei tunnel i lavoratori abbiano sempre pregato insieme) viene sottolineata nel film ma è ben poca cosa rispetto a quello che accadde in realtà. Greg Hall, diacono della comunità cattolica di Cypress (Houston), ha sempre pregato per l’esito dell’operazione e tutti i minatori, di fede cattolica, ricevettero, attraverso quella fessura nella roccia che ha costituito per lungo tempo l’unica via di comunicazione con la superfice, trentatré rosari inviati personalmente dal Papa.
L’esito finale non è dei migliori: i titoli di coda rivelano come l’azienda sia stata assolta dall’accusa di negligenza colpevole e agli operai e alle loro famiglie non venne riconosciuto alcun indennizzo.
QUO VADIS


Nel 67 d.c. il console Marco Vinicio, comandante della XIV legione, dopo tre anni di vittoriose campagne militari, torna finalmente a Roma. In attesa della celebrazione del suo trionfo, viene ospitato in casa dell’ex console Aulo Plauzio. Qui incontra Licia, la sua figlia adottiva e ne prova da subito una forte attrazione. Anche Licia non è insensibile a fascino del condottiero ma ciò in cui credono è ancora troppo divergente. Licia si è convertita al cristianesimo, crede nella pace, nell’uguaglianza fra tutti gli uomini e nell’amore universale. Marco, da buon soldato, è convinto che la lotta sia l’unico mezzo, per Roma, per portare la sua civiltà ai popoli barbari. La loro relazione sembra irrealizzabile ma quando Marco viene a sapere che Licia sta rischiando la morte a causa dell’incendio dei quartieri poveri di Roma eseguito per la follia di Nerone, corre a salvarla…
Il console Marco Vinicio è interessato alla fanciulla Licia ma lei, come cristiana, non vuole essere posseduta ma amata. Un kolossal hollywoodiano sempre valido per la qualità della realizzazione e per aver saputo evidenziare la forza rivoluzionaria del nuovo messaggio cristiano. Su Youtube a pagamento
Quo Vadis è datato 1951, in tempi molto particolari per il cinema americano. La televisione era diventata una seria minaccia e le case di produzione facevano a gara per realizzare kolossal che attirassero pubblico nelle sale (Sansone e Dalila (1949) della Paramount, Davide e Betsabea (1951) della Twentieth Century Fox e poi arrivava questo super-colosso, per la regia di Mervyn LeRoy, il re dei film western, della Metro-Goldwyn-Mayer che mostrava la ricchezza delle case di produzione di quel tempo: 30.000 comparse (ovviamente niente computer grafica), oltre 100 set, 63 leoni, 7 tori, 450 cavalli, 32.000 costumi. Un’altra particolarità del film è quella di esser stato fra i primi a venir girato interamente in Italia (l’inizio della cosiddetta Hollywood sul Tevere) ed è stato una scuola di attori e attrici (qui nelle vesti di comparse) del calibro di Richard Burton, Elisabeth Taylor e la nostra Sophia Loren. Anche Sergio Leone era fra gli aiuti registi.
Bisogna però riconoscere che tutti questi mezzi sono posti al servizio del racconto, non c’è nessuna volontà di stordire il pubblico con la magniloquenza. Se il film può avere ancora un’ottima presa sul pubblico di oggi, ciò è dovuto a una sceneggiatura di alta professionalità. Basti osservare la progressione dell’incontro-scontro-amore fra Marco e Licia: se percepiscono fin dal primo incontro, la forza magnetica dell’attrazione fisica, le loro mentalità sono profondamente diverse. Marco, il personaggio meglio riuscito, persegue una logica di possesso e cerca di lusingarla invitandola a seguire le forze naturali che si muovono dentro di lei -“goditi la tua bellezza, ama tu che sei fatta per amare”- ma al contempo la sua onestà gli impedisce di fare qualcosa che lei possa disapprovare. Licia si muove su un altro piano, parla di un amore che può essere solo gratuito, di rispetto e di dedizione per l’altro. Anche il tema della fede è trattato in modo realistico: non c’è nessuna facile, immediata conversione di Marco ma progredisce lentamente man mano che lui si avvicina di più alla sensibilità di Licia. Ci sono come due storie in questo film che si muovono in parallelo: quella privata, fra Marco e Licia e quella pubblica fra un impero romano forte delle sue istituzioni ma minato dai capricci degli imperatori e la nuova legge promulgata da Cristo, sintetizzata dai due discorsi di Pietro, soprattutto l’ultimo, nel Colosseo, davanti allo stesso imperatore, quando pronuncia la sua profezia: “Qui dove regna Nerone oggi, Cristo regnerà per sempre!”.
Può destare perplessità la figura di Nerone, un uomo fragile, facilmente influenzabile, alla ricerca continua dell’affermazione di se stesso. Peter Ustinov sviluppa questo personaggio con interna coerenza (fu l’unico a vincere un premio, come non protagonista), ma anche se non possiamo avere alcun riscontro storico, questa interpretazione di Nerone appare una presa in giro troppo semplicistica del potere imperiale del tempo.
BUONGIORNO PROFESSORE


Il prof Andrea Monda, ora direttore dell’Osservatore Romano e il prof Giovanni Ricciardi, docente del liceo classico Pilo Albertelli di Roma, tengono a turno una lezione di religione di mezz’ora ogni settimana a una piccola classe di liceali, non secondo un programma prestabilito ma intrattenendosi con i ragazzi, in modo colloquiale, su alcuni aspetti che riguardano la vita di ognuno, inquadrandoli nell’ottica della fede e attingendo a fonti letterarie, filosofiche, artistiche. All’inizio le lezioni venivano trasmesse ogni domenica alle 9,20 su TV2000 ma ora sono tutte disponibile sul sito di TV2000 oppure su Youtube
Due professori, Andrea Monda e Giovanni Ricciardi, ci mostrano come sia possibile parlare di argomenti profondi come la fede e il significato della nostra esistenza in modo da interessare gli adolescenti di una classe virtuale fornendo al contempo un bell’esempio di cultura integrata. Sul sito di TV2000 e su Youtube
Nella lezione del 19 aprile 2020, al rientro dalle ferie pasquali, riprende la trasmissione Buongiorno Professore ma in un modo speciale, a causa della pandemia: ogni ragazzo ascolta e interloquisce da casa. Il professor Monda esordisce con un tema “forte”, quello della Resurrezione di Gesù e lo fa aiutandosi con l’immagine di un quadro famoso, Pietro e Giovanni di Eugène Burnand. Le lezioni non sono mai a una voce sola e Monda interroga i ragazzi. Uno di loro confessa sinceramente che quest’anno non si sente a suo agio nel parlare gioiosamente della Resurrezione, proprio quando ci sono tanti morti, anche vicino a noi, a causa della pandemia. Monda risponde sinceramente che non può non dargli ragione, sa di non poter rispondere in modo compiuto alla sua domanda di fronte al mistero dell’unione fra sofferenza e speranza. Propone riflettere su questo aspetto facendo silenzio intorno a noi, così come silenziosa e vuota era Piazza san Pietro quando papa Francesco, in una solitudine quasi spettrale, il 27 marzo, ha impartito la benedizione Urbi et Orbi. In realtà c’è un modo eccellente per coltivare la speranza: basta guardare quante persone stanno aiutando, con semplicità, chi ha bisogno di aiuto in questi momenti, fino a mettere a rischio la propria vita. La lezione si conclude con la citazione di un brano tratto da una poesia di Pablo Neruda particolarmente pertinente in queste circostanze: “Nascere non basta è per rinascere che siamo nati”.
Quanto abbiamo brevemente descritto costituisce un ottimo esempio di una puntata di questo bel programma di TV2000. Vengono trattati temi “alti” (“la Resurrezione”, “morire per un amico”, “il perdono”, “la Chiesa”,”il male che non voglio”,.. ) ma non solo; anche argomenti che risultano particolarmente vicini a dei adolescenti come quelli che si trovano in questa aula virtuale: “conosci te stesso”, “gentilezza e la rabbia”, “chi sono io?”, “il desiderio”, “basta la salute”,... Il tutto avviene in modo interattivo con gli studenti che rispondono ai professori sul tema del giorno, oppure che provocano loro stessi una discussione.
Grazie alla qualità dei professori, le riflessioni acquistano profondità grazie ai tantcolegamenti logici che vengon gfatti ad ampio raggio: non solo letteratura ma anche pittura e film o serial televisivi.
I due professori mantengono alto il livello delle lezioni sia pur con stili leggermente diversi: il prof Monda si impegna ad avere una maggiore interazione con i ragazzi, a cogliere i loro umori, e le domande che essi gli pongono ci appaiono spontanee. Anche il prof Ricciardi interloquisce con gli studenti ma il suo impegno è di completare nel modo più ampio il tema trattato e a volte sembra che le domande che gli studenti pongono siano state concordate.
Si tratta di un programma particolarmente felice sia per il livello qualitativo sia perché dà un buon esempio di come le lezioni possano esser organizzate in modo da risultare stimolanti per i ragazzi: viene sempre trattata “materia viva”, che tocca tutti loro.
Resta da sciogliere un’ultima curiosità. Il Covid ci sta cambiando e non ritorneremo più come eravamo prima; sul tema dell’educazione in particolare, l’esperienza di lezioni on-line sta lasciando una traccia, in positivo. E’ ovvio che l’interazione professore- alunno è insostituibile, perché non si tratta solo di istruire ma di educare, ora come nel futuro, ma è indubbio che la presenza di tante lezioni disponibili on-line stabilisca una positiva “concorrenza”, un confronto fra lo stile di tanti professori e in definitiva a una spinta verso un aumento della qualità didattica. Non sarà quindi strano, in un futuro, che il professore continui a tenere le lezioni in aula ai suoi studenti ma per un certo argomento particolare, li inviti ad andare a vedere in Internet quella lezione di un certo professore.
THE CHOSEN (prima stagione)


Il pescatore Simone non riesce a dire la verità a sua moglie: quella notte non andrà a pescare ma aiuterà le guardie romane a individuare I suoi colleghi che sono andati a pescare, nonostante i divieti, nel giorno dello Shabbat: ha bisogno dei soldi necessari per pagare le tasse in arretrato, altrimenti gli verranno sequestrate la barca e la casa. Matteo è ricco, esercita il mestiere di esattore delle tasse con puntigliosa precisione ma è un uomo solo, disprezzato dalla sua gente. Nicodemo è un maestro fariseo molto stimato ma resta incredulo quando incontra Maria di Magdala, una indemoniata che aveva cercato invano di esorcizzare, perfettamente guarita. Alle sue domande insistenti, Maria risponde che è stato un uomo gentile a salvarla, di nome Gesù…
Una coraggiosa ma interessante visitazione dei Vangeli che pur mantenendosi coerente alle parole di Gesù, sviluppa in dettaglio la vita degli apostoli, prima e dopo l’incontro con Lui. Su App dedicata e su Youtube
Simone, dopo il miracolo della pesca miracolosa operata da Gesù, ha ricevuto l’invito del Maestro a seguirlo. Simone è felicissimo della proposta, ma va dalla moglie a chiedere la sua approvazione. I discepoli che sono stati da poco scelti da Gesù, approfittano di trovarsi tutti assieme alle nozze di Cana per conoscersi meglio: ognuno racconta che mestiere faceva e da dove proviene; nel loro viaggio verso Gerusalemme, incontrano una donna egiziana e Gesù la interpella direttamente nella sua lingua, che ha imparato quando da bambino è andato in quel paese in esilio con Giuseppe e Maria. La samaritana si reca da sua marito: gli chiede di firmare l’atto di divorzio (lei ormai l’ha abbandonato da tempo) ma lui rifiuta; si reca quindi a mezzogiorno, in pieno sole, a prendere l’acqua dal pozzo perchè se andasse di mattina, come tutte le altre donne del paese, non sarebbe gradita.
Sono rapidi esempi di come questo serial multistagione (la prima, pubblicata finora, si ferma a quando Gesù toglie il riserbo e dichiara apertamente di essere il messia) sviluppi in dettaglio la vita delle persone che vengono invitate da Gesù a seguirlo. Sono ormai tanti i film che hanno imbastito storie di fantasia intorno a personaggi contemporanei di Gesù a partire da La Tunica (1953) per arrivare ai più recenti come Il Risorto (2016) ma questa volta l’approccio è diverso: se la vita dei discepoli, di Nicodemo, di Maria di Magdala è liberamente ricostruita, quando interviene Gesù, le sue parole sono quelle del Vangelo (più qualche aggiunta, per meglio contestualizzarlo). Ma al di là della soluzione adottata, è importante chiedersi: la figura di Gesù, vero Dio e vero uomo e il suo messaggio, emergono con forza e chiarezza? La risposta è si. Proprio perchè veniamo a conoscere in dettaglio la vita dei vari personaggi, appare più chiaramente la rivoluzione apportata dal Messia: si avvicina di più proprio ai malati che hanno bisogno di esser curati, a quelli che la società considera come irrimediabilmente condannati e oggetto di disprezzo. E’ vero che in questa prima stagione l’impatto della presenza di Gesù è percepita sopratutto attraverso i miracoli, ma probabilmente nelle prossime si svilupperà più chiaramente il suo lieto annunzio. Molto ben delineata, non collegata a nessum miracolo ma al puro convincimento della parola, è la figura di Nicodemo: un fariseo onesto, che cerca la verità, che non interpreta il mondo partendo dal contesto chiuso di ciò che prescrive la Legge ma è pronto a farsi stupire dal nuovo e il suo incontro notturno con Gesù, la sua commozione, il loro colloquio, sono uno dei punti più alti di questa stagione.
Ovviamente bisogna chiudere un occhio su certe ricostruzioni dell’epoca: due giovani si prendono a pugni mentre gli altri intorno scommettono su chi vincerà e sembra proprio di assistere a una scena ricavata da un film western; i soldati romani remano su di una barca, con tanto di elmo e di mantello rosso da parata; Gesù si sposta da un paese e l’altro con uno zaino che sembra preso in prestito da liceale. Occorre però riconoscere che la realtà ebraica del tempo è ben disegnata: è curata nei dettagli la preparazione per il giorno dello Shabbat e i personaggi ebrei esprimono una sentita fede nel Dio dei loro padri.
The Chosen è disponibile come app omonima sul cellulare (quindi niente PC) in inglese con sottotitoli in italiano oppure direttamente su Youtube ma con sottotitoli in inglese e con molti intermezzi pubblicitari. Si tratta di un progetto ambizioso che viene realizzato attraverso crowdfunding: la casa produttrice Vidangel Studios e l’deatore Dallas Jenkins hanno raccolto in poco tempo 10,2 miliardi di dollari da 16.000 investitori. Il serial è stato già visto da 15 milioni di persone e il numero è in crescita.
IGNAZIO DI LOYOLA


Il piccolo Íñigo López de Loyola, ormai orfano, viene mandato alla corte del ministro delle finanze del re Ferdinando il Cattolico per ricevere un’educazione cavalleresca e religiosa. Diventato ormai un giovane aristocratico affamato di avventure e gloria, si trova nel 1521, a trent’anni, a difendere la città di Pamplona assediata da un numero soverchiante di truppe francesi. Riesce a persuadere il comandante della città a intraprendere una disperata resistenza convinto che la morte in battaglia sarebbe stato il massimo della gloria ma durante i combattimenti viene gravemente ferito a una gamba. Soccorso dagli stessi francesi, viene portato al castello di famiglia, dove trascorse un lungo periodo a letto, sottoposto a dolorosi interventi alla gamba. In questo periodo, leggendo le vite dei santi, intravede la possibilità di dare un nuovo significato alla propria vita, ponendosi al servizio del Re più grande. Intraprende, con il nuovo nome di Ignazio, una vita di elemosina, di aiuto ai poveri e di predicazione, a somiglianza di san Francesco. Ma ciò finisce per destare dei sospetti in quei tempi difficili e inizia un processo a suo carico da parte dell’Inquisizione...
Il racconto della conversione di Ignazio di Loyola, da prode cavaliere in onore del suo re e della sua dama, a fedele servitore della Regina dei Cieli e del Re dei Re. Un racconto appassionante anche se talvolta barocco nella narrazione. Su Primevideo e trasmesso su Tv2000
"Quando un cavaliere giura di servire il suo signore, deve sottoporsi alla veglia d’armi. Rimane in quel luogo per tre giorni ad elencare tutti i suoi peccati analizzando ogni angolo della sua vita in cerca della più piccola macchia e poi inizia la veglia….”
Così racconta Iñigo López de Loyola, esprimendo quell’animo nobile e cavalleresco che aveva coltivato nella sua giovinezza fino a quando la ferita lo spinse, prima a disperarsi e poi a trovare una nuova espressione di nobiltà e cavalleria. Il film sviluppa bene la progressione che consentì a Ignazio di scoprire la sua vocazione e diventare fondatore della Compagnia di Gesù nel difficile periodo della Controriforma. In una prima fase le gesta eroiche e le valorose imprese al servizio non solo del suo re ma anche della misteriosa dama che “non era una nobile qualunque; non era una contessa o una duchessa; il suo rango era ben più elevato di questi” (dice nelle sua autobiografia), sono trasformate, durante la “veglia d’armi” al santuario di Monserrat in “un servizio alla Regina dei Cieli e fedeltà a Lei e al Signore Iddio, per sempre”.
In una fase successiva, quando ormai si era mosso sulla scia di san Francesco vivendo di elemosina e prendendosi cura dei poveri e degli ammalati, comprende che non erano importanti “grandi azioni esteriori ma piuttosto doveva dare priorità alle motivazioni spirituali di quegli atti. Nella sua immaginazione è san Francesco, che interloquisce direttamente con lui e lo invita a riflettere che “un conto è essere coraggioso affrontando il nemico con la propria spada, altro è affrontare la fama e l’umiliazione affidandosi solo alla fede nella provvidenza di un Dio invisibile”. La terza fase è appena accennata: Ignazio, con ancora pochi seguaci, parte per Parigi per completare la sua formazione e dare più profondità alla sua predicazione. La versione del 1946 (Il cavaliere della croce) andava oltre, raccontando anche i primi anni da sacerdote: è in previsione un sequel?
Il film, nel raccontare la storia di Ignazio giovane, usa l'artificio di porre in immagini il pensiero, le riflessioni del santo. Eccolo interloquire con s. Francesco e s. Domenico, con Gesù stesso giovane. E’ un modo cinematografico di esprimere le sue incertezze, il suo sentirsi colpevole per i peccati commessi in passato, salvo poi comprendere che questo eccesso di scrupoli era solo opera del demonio (impersonato da un altro lui stesso), Si tratta di un espediente narrativo che non sempre risulta efficace anche se in effetti, nella sua biografia, Ignazio stesso riporta le sue visioni e i subdoli sospetti instillati dal diavolo.
l film riesce a sviluppare una felice fusione fra l'obiettivo di risultare interessante al un pubblico contemporaneo e quello di restare fedele alla biografia del santo. Il budget per realizzare questo film non era elevato e lo si vede nelle sequenze dei combattimenti; inoltre la soluzione di riportare le sue riflessioni attraverso dialoghi immaginari con Gesù, il diavolo e i santi del passato, conferisce un tono un po' barocco alla narrazione ma l'obiettivo di raccontarci la conversione di S Ignazio è pienamente raggiunto
LA VITA DAVANTI A SE'


Donna Rosa è una energica, anziana signora, di origini ebraiche che vive a Bari e che ospita in casa figli di prostitute, per evitare che vengano affidati ai servizi sociali. Già molto impegnata, accetta di malavoglia di prendersi cura di Momo, un ragazzo orfano di dodici anni, di origini senegalesi, che ha già dato prova del suo spirito selvaggio rubando proprio a lei dei candelabri che stava per vendere al mercato. Alloggiato in casa di Rosa, Momo continua a perseguire il suo obiettivo di indipendenza (diventa anche un pusher della droga) per riscattarsi dalla sua condizione di ragazzo senza origini, ma trova un’oasi di tranquillità presso Joseph, un mercante di tappeti presso cui ha iniziato a lavorare. Intanto la signora Rosa manifesta sempre più spesso l’esistenza di una sofferenza interiore che la porta a rifugiarsi in cantina dove ha costruito il suo angolo di pace, come faceva da piccola quando si nascondeva sotto le baracche del campo di Auschwitz…
Momo, un ragazzo di dodici anni, senegalese senza famiglia, viene ospitato dalla signora Rosa. Il ragazzo è un ribelle e cerca il denaro facile ma Rosa, anche se ormai anziana, ha un grande cuore. Un bel racconto di formazione. Su Netflix
Diciamoci la verità: il primo impulso che ci spinge a vedere questo film è la curiosità di scoprire se Sophia Loren, a 86 anni, è ancora quella grande attrice che abbiamo conosciuto. E’ vero che anche il soggetto del film è interessante: il libro omonimo a cui si ispira, di Romain Gary, ha vinto il premio Goncourt nel 1975 e nel 1977 ne è stato ricavato un film francese con Simone Signoret, che ha vinto il premio Oscar come miglior film straniero ma se ci volessimo limitare a voler rivedere la nostra Sophia, le aspettative sarebbero magnificamente confermate. Nulla delle sue doti artistiche è andato perduto: è sempre lei, una napoletana un po’ sfrontata dai toni burberi che le servono per nascondere il suo grande cuore; in questo film non c’è l’intensità dolorosa della madre di La ciociara (non sarebbe stato necessario) ma manifesta una certa pacata melanconia che non è certo tristezza ma serena accettazione di una realtà che , dopo una lunga vita, ha portato cose belle e cose brutte e da questa esperienza ne è scaturito un senso provvidenziale della vita. “E’ proprio quando non ci credi che succedono le cose belle. E’ rassicurante”: dice Rosa a Momo. Sophia non ha paura di mostrarsi senza trucco, a tenersi i capelli lunghi e scompigliati ma c’è un motivo per questo: lei è una leonessa agli occhi di Momo e le ricorda sua madre quando era in Africa e anche Joseph, il tappezziere presso cui lavora, gli ricorda che per l’Islam, la religione del ragazzo, il leone è simbolo di forza, pazienza e fede.
La sceneggiatura giustamente semplifica il racconto rispetto al testo originale (e al film del 1977 che lo ricalcava fedelmente) e si concentra sulla trasformazione di Momo e sui destini di Rosa. L’unica ricchezza di Momo è un pugno di ricordi della madre quando lui era piccolo e ballavano spesso insieme. Reagisce con rabbia a questa sua fragilità ostentando aggressiva spavalderia verso tutto e tutti. “Non volevo esser un ragazzo come gli altri”: racconta Momo. Nonostante cerchi la propria affermazione con facili soluzioni come furtarelli e spaccio di droga, ha comunque due mentori d’eccezione: Joseph e Rosa. . Il tappezziere Joseph cerca di far leva sulla fede, sulla ragione (“non occorre la violenza: la parola è l’arma più letale”) e sulla cultura. E’ lodevole il suo richiamo ai classici della letteratura in particolare a I Miserabili di Victor Hugo (citato indirettamente a inizio film con il furto di candelabri): “il bene e il male dipendono da come ascolti le persone e come le sai ascoltare”: è l’interpretazione che Joseph dà del libro. Ma il suo appello al senso di responsabilità di Momo non porta frutti. Decisivo è invece l’intervento di Rosa: il culmine del loro rapporto avviene quando lei, che non si trova in buona salute, chiede a Momo di aiutarla a non esser porata in ospedale. “Sei un tipo tosto ma so che sei di parola”. E’ a partire da quel momento che Momo diventa adulto: ora ha una responsabilità verso un’altra persona che le sta a cuore, ha un compito da assolvere. Se Sophia è superlativa, molto bravo anche Ibrahima Gueye nella parte di Momo. Sa mostrare di essere un ragazzo vendicativo ma anche tenero con chi lo tratta con rispetto e delicatezza.
Lo scenario in cui si svolge questo bel racconto di formazione è insolitamente pacato, sia nelle riprese di Bari (non ci sono sequenze in ambienti degradati) che nel disegno dei personaggi secondari.
Il mercante di droga se ne sta tranquillo nel suo ufficio a distribuire il "prodotto" ai vari pusher e poi si concede una divertente cenetta con piacevoli ragazze (niente pistole o rese dei conti secondo lo stile Gomorra o Suburra) e la prostituta Lola se ne torna a casa dopo il "lavoro" per ritrovare il suo figlioletto e sembra non abbia un protettore che le dica quanto guadagnare e dove lavorare (siamo lontani da Adua e le compagne)
Si tratta chiaramente di una scelta stilistica su cui si può essere d’accordo o meno ma in fondo dispiace che la trasformazione di Momo non assuma i connotati di una realtà possibile ma quelli di un racconto edificante che tende alla favola.
CLOUDS


A Zach Sobiech è stato diagnosticato un cancro alle ossa da quando aveva 14 anni. Sostenuto amorevolmente dai suoi genitori, Laura e Bob e dai suoi tre fratelli, ha ora 17 anni, si muove con le stampelle, non si vergogna di mostrare il suo cranio pelato, è ben voluto da tutti ed è anche bravo a suonare, passione che condivide con la sua amica dai tempi dell’infanzia, Sammy. C’è anche una ragazza che è interessata a lui, Amy ma proprio quando hanno deciso di incontrarsi per un picnic, lui non arriva all’appuntamento. Zach ha dovuto subire d’urgenza un intervento chirurgico ed è stato informato che ha ancora pochi mesi di vita….
Un ragazzo di 17 anni, malato terminale di cancro, è circondato dall’affetto della sua famiglia, di un’amica e di una fidanzata e tutti insieme riescono a rendere magnifici e pieni di senso gli ultimi mesi di vita. Da una storia vera. Su Disney+
La storia raccontata in questo film è assolutamente vera. La sceneggiatura si è ispirata al libro Fly a Little Higher: How God Answered a Mom's Small Prayer in a Big Way scritto dalla stessa madre subito dopo la sua morte. Molti dei compagni di scuola e amici del vero Zach hanno fatto da comparse al film, in particolare al ballo scolastico finale (il cosìdetto Prom), a cui hanno realmente partecipato. Da subito il film si discosta dallo stereotipo del film lacrimoso su di un giovane che sta morendo. “Io sono un combattente” dichiara fin dall’inizio Zach e combatte nel migliore dei modi: non pensa a sè ma cerca di “dare a tutti quello che vogliono” dice lui in un’altra sequenza, cioè cerca di mostrarsi simpatico e collaborativo, ricevendo in cambio amicizia dai compagni di scuola e affetto dalla sua bella famiglia (due genitori, tre fratelli e un cane) invece che compassione. Esemplare è la sequenza dove lui è in bagno davanti allo specchio, dopo che ha saputo di essere un malato terminale e prova a fare esercizi di sorriso, nonostante l’angoscia che lo assale. Che senso ha esercitarsi a fare domanda di iscrizione a un college, come ha proposto a tutti il suo professore, quando è sicuro che non ci potrà andare? Zach si confida così con la madre e la sua risposta è insolitamente laica, per lei che è cattolica: “E’ spaventoso ma nessuno di noi ha la certezza del domani, però potrebbe essere un’occasione per te. Dimenticare tante cose superficiali di cui la gente si preoccupa e puoi decidere cosa è più importante per te”. Anche il suo professore sembra essere dello stesso parere, quando Zach gli prospetta di rinunciare
anche alla scuola: “Rinunciare non è un’opzione; dico solo che devi vedere le tue priorità Tu hai qualcosa dentro e lo devi far sentire a tutti”. In realtà il ricondurre la vita all’essenziale quando il tempo concesso sta per terminare è un modo saggio per affrontare razionalmente il problema ma non riscalda certo il cuore. Ciò che sostiene Zach, oltre all’affetto dei genitori e dei fratelli, è il rapporto che lui ha, di dono reciproco, con due ragazze: Sammy, la sua amica d’infanzia e partner musicale e l’amore per Amy, la sua ragazza per poco. Con quest’ultima sa bene che il tipo di amore che stanno imbastendo è strutturalmente impostato per costruire una realzione per la vita. Per questo motivo lui si ritrae quando la loro intimità sta crescendo, proprio perché riconosce che: “Non ho niente da darti”: non accetta l’intimità di un amore-consolazione. Accetterà invece la dolcezza di un affetto che esprima vicinanza e comprensione. Anche Amy è molto intima a lui e ne è segretamente innamorata ma capisce che è inutile sognare qualche futura trasformazione del loro rapporto perché non c’è futuro. E accetta di essere quella che è sempre stata: una sua spalla insostituibile.
Bisogna ora esaminare un aspetto misterioso di questo film: il rapporto con la fede. La madre è cattolica (non viene mai detto nel film) e porta tutta la famiglia a Lourdes nella speranza di un miracolo. Arrivati al “luna park cattolico” come lo definisce il fratello di Zach, assistiamo al rito dell’immersione, per la madre e per Zach, ed è il momento centrale del film, ripreso in silenzio, con lentezza e con il grande ripetto che è dovuto a un momento così particolare. La famiglia poi torna a casa e inizia la fulminante, finale, carriera di Zach come cantautore mentre null’altro viene detto in termini di fede.
“Okay, Signore puoi riprendertelo. Ma se deve morire vorrei per lui qualcosa di grande, vorrei che la vita di qualcun altro venga trasformata”. E’ questa la preghiera della madre, riportata nel libro (ma non nel film), un’invocazione perché quella sofferenza avesse un senso a beneficio degli altri, così come ci è stato insegnato da Cristo, il cui sacrificio ha valore redentivo. E’ vero, nel film non c’è nessun accenno alla fede cristiana ma resta implicita nei fatti che descrive.
Come mai, proprio durante il volo di ritorno, Zach trova l’ispirazione per quella canzone (Clouds) che costituirà il suo massimo successo e tornato a casa, va, alle quatro di mattino, a svegliare Amy e la invita a comporre con lui quella canzone per poi postarla su Youtube? Evidentemente qualcosa di più è successo: più di un bel ragionamento sull’utilizzare bene gli ultimi momenti, più del ricambiare l’affetto che ha ricevuto dalle sue ragazze ma proprio dall’aver scoperto la pienezza di significato della sua vita e della gioia di realizzarla, lunga o corta che fosse.
LA VITA STRAORDINARIA DI DAVID COPPERFIELD


David Copperfield, ormai scrittore famoso, legge il suo romanzo autobiografico davanti alla platea di un teatro. Inizia dalla sua infanzia, vissuta serenamente con la madre (il padre è morto) finchè si scontra duramente con il nuovo marito della madre, che lo manda a lavorare a Londra in una fabbrica di imbottigliamento del vino. David alloggia presso la famiglia di Mr. Micawber, un uomo buono ma perennemente coperto di debiti. Sconvolto dalla notizia della morte della madre, sfugge a Dover per rifugiarsi dalla zia Betsey, l’unica parente che gli è rimasta e che vive con uno strambo personaggio, Mr. Dick. La zia riesce a pagargli gli studi e finalmente David riesce a trovare un po’ di benessere lavorando presso lo studio legale Spenlow & Jorkins. In quel periodo fa conoscenza anche con la figlia dell’avvocato, Dora, e se ne innamora ma le avventure non sono finite...
La classica storia di David Copperfield rivisitata con molta ironia ma anche dramma, nel tentativo diruire il vero spirito dell’autore. In SALA
Charles Dickens solcò realmente il palcoscenico di molti teatri, portando a termine un ciclo di letture dei suoi romanzi più famosi sia in Gran Bretagna e che negli Stati Uniti. D’altronde diventare un attore rientrava nella lista delle sue numerose aspirazioni e calarsi nei panni dei suoi personaggi deve averlo molto divertito. Inizia proprio così il film di Armando Iannucci (Morto Stalin se ne fa un altro) non tanto teso a seguire con rigore filologio il famoso racconto (come avev fatto invece Roman Polansky per Oliver Twist) ma a ricostruire la personalità dell’autore, che non ha mai fatto mistero di aver inserito in questo romanzo molte delle sue esperienze personali. L’identità del personaggio-autore è ancor più rimarcata dalla mania di David di scrivere, su tanti pezzetti di carta, le frasi dette che lo hanno colpito, certe
sue osservazioni, tutte custodite in un cofanetto che porta sempre con sè: tanti piccoli semi che serviranno a far sbocciare uno scrittore ancora in erba. Se Iannucci aveva caricato Morto Stalin se ne fa un altro di satira amarissima, qui c’è molta ironia gioiosa, colorata e un po’ pazzerella. I personaggi-caricature sono scolpiti benissimo e si avvalgono di attori di primo piano (Tilda Swinton, Hugh Laurie, Ben Whishaw); paradossalmente, proprio il protagonista (il pur bravo Dev Patel) mostra il difetto che è tipico di Topolino nei confronti di Paperino: ha una definizione più fragile perché essendo l’unico che si mostra ragionevole in un mondo di simpatici svitati, svolge sopratutto la funzione di perno di continuità per tutta la storia.
Le due ore di spettacolo possono, in certi momenti, apparire anche lunghe ma il regista sa rendere, con linguaggio cinematografico, l’energia della pagina originale con l’uso di vignette, slapstick, accelerazioni da cinema muto.
La satira non è però l’unico registro toccato dall’autore, che è molto bravo nell’alternare momenti divertenti ad altri altamente drammatici, per costruire quella tragicommedia umana che è la lettura tipica del romanziere della nostra esistenza. Alla fine tutti questi personaggi, afflitti da varie vicissitudini, sapranno costruire un fronte comune contro i cattivi di turno e quando il David ormai affermato, seduto alla scrivania intento a scrivere le pagine del suo romanzo, si immagina di parlare con lui stesso ragazzo, lo apostrofa con un “ce la farai” che diventa la chiave di lettura della storia: grandi rovesci, grande difficoltà ma alla fine la vita saprà essere generosa con i buoni e i coraggiosi.