Horror
IT


1988. Nella “tranquilla” cittadina di Darry, in un pomeriggio piovoso, il piccolo Georgie esce di casa e scompare, inghiottito da un misterioso mostro con il volto da clown. È solo la prima di molte sparizioni di ragazzini che gli adulti della cittadina sembrano non notare. Il fratello di Georgie, Bill, però, non si arrende e insieme al gruppetto di amici “perdenti” si troverà ad affrontare un male misterioso e terribile che si annida nel sottosuolo…
In una piccola cittadina un bambino scompare e il gruppo dei suoi amici si mette sulle sue tracce. Un film di genere horror ben realizzato, per adulti
Uscito alla fine dell’estate in un anno di crisi del cinema, negli Usa It si è rivelato un fenomeno commerciale e culturale, diventando nel giro di poco l’horror più visto della storia e macinando numeri e spettatori da film di supereroi della Marvel.
La pellicola, adattata da uno dei romanzi più famosi di Stephen King, porta la firma alla sceneggiatura anche di Cary Fukunaga, che in origine doveva anche dirigerlo . Il libro di King, un opus di oltre mille pagine, intreccia due dimensioni temporali, quella della pre-adolescenza dei protagonisti e quella dell’età adulta, tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta in cui è stato scritto.
La pellicola, per ragioni probabilmente tanto commerciali che di racconto, sceglie di concentrarsi solo sulla sezione adolescenziale e ricolloca tutto quanto tra il 1988 e il 1989 (di modo che la seconda parte, prevista per il 2019 e già annunciata nei titoli di coda, coinciderà più o meno con l’oggi), aggiornando l’immaginario, che pesca in un periodo che nell’ultimo paio d’anni è stato molto saccheggiato anche dalla televisione, a partire dall’osannato Stranger Things di Netflix.
Non tutto torna nel salto in avanti temporale: Mike, il ragazzino di colore, sembra uscito da un’altra epoca e in generale, a parche pochi riferimenti alla cultura pop (gruppi musicali e cartelloni al cinema locale), il mondo in cui i protagonisti si muovono risulta curiosamente fuori dalla sua epoca.
Il paradosso, poi, è che i ragazzini di It, pur essendo per certi versi i prototipi di molto di quello che abbiamo visto poi, qui rischiano di sembrare a loro volta “derivativi” rispetto ai loro epigoni (e del resto l’occhialuto Finn Wolfhard, qui chiacchierone e spaventato dai clown, è protagonista anche della saga televisiva di Netflix). Colpa anche di una costruzione dei caratteri un po’ approssimativa, che va un po’ più in profondità solo sul protagonista Bill, incapace di accettare la morte del fratellino, e della ragazza del gruppo, Beverly, apparentemente “scafata”, ma in realtà tormentata da un padre molestatore.
It, il male misterioso che abita i sotterranei della cittadina in cui ogni 27 anni i ragazzini iniziano a scomparire ma nessuno sembra notarlo (gli adulti, quando non attivamente ostili come il padre di Beverly, sono poco più che mere comparse in una storia che si concentra volutamente solo sui ragazzini), incarna di volta in volta le paure più profonde di ciascuno dei protagonisti: quella di affrontare la morte, la solitudine, le malattie vere o presunte, un rito di passaggio o l’ingresso nella pubertà.
Un concetto fin troppo esplicitato come forse fin troppo insistita è l’incarnazione più nota di It, il clown Pennywise, ben interpretato da Bill Skasgård, ma così onnipresente da risultare alla fine un po’ ripetitivo.
Forse si rischia di pretendere fin troppo da una pellicola che innanzitutto è un buon film di genere, confezionato con innegabile professionalità e capace di aggiornare per un pubblico giovane (che è poi lo zoccolo duro degli spettatori) un prototipo stranoto, offrendo qualche chiave di lettura non nuovissima ma efficace e la giusta dose di spaventi e tensione.
CRIMSON PEAK


Edith Cushing è una giovane ereditiera americana che viene conquistata dal misterioso sir Thomas Sharpe, un nobile inglese senza soldi venuto nel Nuovo Mondo in compagnia della sorella per trovare i fondi necessari a salvare la sua proprietà. Morto misteriosamente il padre, Edith accetta di sposarlo e lo segue in Inghilterra, in una casa misteriosa e cadente che nasconde molti segreti. Lì dovrà lottare per non perdere la sua vita e la sua anima…
Quest’ultimo film di Guillermo del Toro (Il labirinto del fauno) è un prodotto ibrido, che si sviluppa come un romance gotico ma non mancano scene spaventose tipiche del genere horror
È concepito più come un romance gotico nello stile di Henry James che come un vero e proprio horror (anche se le immagini spaventose non mancano affatto), l’ultimo film di Guillermo del Toro (suo anche il fantasy “politico” Il labirinto del fauno, candidato agli Oscar) e la sceneggiatura gioca abilmente su molti topoi di questo genere letterario, spandendo a piene mani citazioni e rimandi colti. L’affascinante cacciatore di dote che concupisce la ragazza ricca e riservata ricorda tanto Washington Square, all’ambiguo passato e ai bambini “demoniaci” di Giro di vite, con incursioni anche nei terreni cari alle sorelle Bronte di Jane Eyre e Cime tempestose, senza dimenticarsi i divertissement sul genere di Jane Austen (Northanger Abbey), esplicitamente citata come ironico modello per la giovane Edith, ereditiera con il pallino per la scrittura e i fantasmi e la fiaba di Barbablu. Non mancano i richiami cinematografici, dallo Shining di Kubrick a Il sospetto e Rebecca la prima moglie di Hitchcock.
Se i fantasmi in scena sono parecchi e anche abbastanza rumorosi e molesti, è chiaro che il cuore della storia non è tanto il soprannaturale in sé, quanto la forza misteriosa e terribile dei sentimenti, da quelli più puri a quelli più morbosi e violenti, capaci di mantenere inalterata la loro forza oltre i limiti del tempo e dello spazio.
Se c’è un appunto da fare agli autori è che la natura del mistero che circonda l’avita magione degli Sharpe (una catapecchia cadente in cima a una collina di argilla rossa, a metà tra la casa delle streghe dei Luna Park e il castello di Hogwarts) appare fin troppo presto chiaro allo spettatore, cui tuttavia nel finale viene fornita un’ulteriore e non necessaria spiegazione in merito. Con il risultato che quanto vorrebbe essere shoccante diventa involontariamente comico e il potenziale romantico della vicenda, che pure del Toro giustamente non sottovaluta, si perde in una serie di svolte grandguignolesche.
Mia Wasikowska riesce a dare dignità alla sua eroina, passando con scioltezza dai toni della suffragetta ante litteram, occhialuta e poco interessata alla mondanità, a quelli della vittima terrorizzata, mentre la solitamente solare Jessica Chastain infonde una sorta di tragica dolcezza anche alla ferocia della sua Lady Lucille; Tom Hiddlestone, invece, paga un po’ l’identificazione ormai globale con il Loki della Marvel e Charlie Hunnam fatica un po’ nei panni di un oculista con il pallino di Conan Doyle e del sovrannaturale.
In un panorama cinematografico in cui ormai l’horror o indulge nello splatter o ripiega sull’espediente ormai un po’ trito del found footage, Crimson Peak è un oggetto strano, quasi d’altri tempi, fin troppo bello per un pubblico di bocca buona, ma fin troppo compiaciuto e cerebrale anche per quello più avveduto
THE CANYONS


Christian è un giovane ricco e annoiato che con i soldi del padre si diletta nella produzione di horror di bassa qualità, Tara è la sua compagna, ex attrice ed ex modella. Vivono insieme ma sono una coppia “aperta”, che pratica incontri a tre e scambi di coppia… Una situazione già complicata che precipita quando un ex fidanzato di Tara, Ryan, viene scelto come protagonista del film che Christian sta producendo. Ryan ora è fidanzato con Gina, l’assistente di Christian, ma è ancora legato a Tara, che però non ha detto nulla a Christian della loro relazione... Il ragazzo inizia a sospettare, inizia a spiare e far pedinare la fidanzata e precipita in un vortice di paranoica gelosia, tra giochi perversi e violenza latente…
Una troupe di dilettanti vuole realizzare un film Horror di basso costo. Un pretesto per molto voyeurismo e violenza
Non credete a chi andrà a cercare giustificazioni da capolavoro postmoderno, iperconsapevole e ironico a questa storia squallida e noiosa di vite buttate via, vendute e sprecate tra sesso, droghe e internet, che si perde nelle sue confuse intenzioni e che la buona regia di Schader (pure se evidentemente limitata dal budget) non riesce a nobilitare. Il re è nudo e questa pellicola è un pasticciaccio poco digeribile che solo un pubblico da Festival (la pellicola è passata Fuori Concorso a Venezia 2013) potrebbe avere lo stomaco o la sofisticazione per sorbirsi e apprezzare.
Una riflessione sul declino di Hollywood e del cinema (la pellicola si apre su sale cinematografiche desolatamente abbandonate)? Un thriller psicologico? Una riflessione spinta sul degrado dei rapporti di coppia dovuto al pansessualismo e alla dipendenza patologica dai cellulari? Un ambiguo omaggio alla decadenza fisica e psicologica di Lindsay Lohan? Quale che sia l’intento del film di Paul Schader (sceneggiato da Bret Easton Ellis, già sceneggiatore di American Psyco), il risultato è per lo meno deludente e ondeggia tra il voyeurismo compiaciuto e una condanna morale confusa e in quanto tale piuttosto inefficace.
Va detto che, non si sa se a proposito o no, c’è veramente poco di interessante nelle vite dei protagonisti, il ricco e annoiato Christian (la scelta del nome è forse l’unico colpo di genio della pellicola, un ironico omaggio al protagonista del famigerato porno-soft Cinquanta sfumature di grigio, che Ellis si era autocandidato a sceneggiare), la sua fidanzata sottomessa, turbata e infedele Tara, l'ex fidanzato di lei Ryan, aspirante attore di belle speranze e dalla moralità claudicante, la di lui attuale fidanzata Gina e tutto il mondo che gira attorno alla produzione di un piccolo film horror di serie D.
Cene a quattro in cui Christian e Tara passano il tempo al cellulare e sdottorano sul loro statuto di coppia apertissima, gli incontri tra scambisti squallidi pure sullo sfondo delle lussuose ville californiane, i giri di shopping e gli incontri inconcludenti nei centri commerciali, pedinamenti misteriosi che non portano da nessuna parte, storie di sesso spiate su social network e cellulari. Niente di tutto questo riesce mai a creare una qualche empatia da parte del pubblico nel confronto dei personaggi, solo un senso di noia e di fastidio crescente non mitigato dalla curiosità un po’ perversa nei confronti degli interpreti.
Prima tra tutti Lindsay Lohan, ex piccola star dei film Disney da tempo persa tra droghe, alcool e riabilitazioni, già sfigurata nel fisico e nel viso da vizi e chirurgia, che qui sembra recitare stancamente se stessa a beneficio di un pubblico guardone. Lo stesso che potrebbe andare al cinema incuriosito dalla presenza, nel ruolo di Christian, del pornodivo James Deen, un unico broncetto (che si vorrebbe astutamente perverso) stampato in viso e qualità attoriali pari a zero.
Non è una buona idea e l’impressione è che qualunque aspettativa, intellettualistica o banalmente pecoreccia, si nutra su una pellicola come questa è destinata a restare delusa.
THE GREY


Ottway lavora in una piattaforma petrolifera in Alaska: è incaricato, con il suo fucile, di tenere lontani i lupi dalla base. Ottway ha scelto quella vita per dimenticare la sua donna che è morta ma anche gli altri lavoratori sono dei disadattati, avventurieri o ex carcerati. L’aereo che li porta ad Anchorage precipita fra i ghiacci. Per i sette sopravvissuti inizia una lotta per la sopravvivenza perché la zona è infestata dai lupi…
Sette sopravvissuti a un disastro aereo in Alaska lottano contro il gelo e i lupi. Una riflessione sul senso della vita che rifugge da qualsiasi riferimento soprannaturale ma ritrova solo l’orgoglio della lotta: una impostazione che sembra rimandare a Hernest Hemingway
La prima parte del film è la più bella. Le immagini di un cielo sempre grigio, il volto dolente di Ottway e le sue riflessioni, ci inseriscono con pochi tratti efficaci in una ambientazione-limite: il gelo dell’Alaska, l’isolamento del personale della piattaforma petrolifera, uomini sbandati che hanno accettato quel lavoro perché hanno qualcosa da cui fuggire come lo stesso protagonista, che ha amato una donna che ora non c’è più.
Il tentativo di suicidio di Ottway, posto all’inizio del racconto, sta a annunciare il tema dominante del film, quello dell’unico nostro destino certo, la morte. Una compagna di viaggio ingombrante ma con la quale bisogna abituarsi a convivere. Dopo il crash dell'aereo, Ottway, rivolgendosi a un passeggero mortalmente ferito, non cerca di consolarlo e non esita a dirgli la verità: "stai per morire". Con la serena sicurezza di chi si è già abituato a vivere accanto alla signora in nero, lo invita a spendere gli ultimi momenti pensando a chi gli è stato più caro.
Nella seconda parte il film cambia tono. I sette superstiti iniziano una marcia verso la salvezza insidiati da un branco di lupi e il racconto si carica di tonalità horror del tipo più deleterio: gli uomini muoiono uno ad uno anche per banali incidenti, quasi a rimarcare l’ineluttabilità di un fato spietato. I dettagli splatter per le morti degli uomini come dei lupi sembrano ammiccare a un pubblico che apprezza questo tipo di scene.
Il tema del senso da dare alla nostra vita viene ripreso quando gli uomini si ritrovano di sera intorno al fuoco, in un momento di pausa dagli attacchi dei lupi. Tornano a discutere sull’assurdità della sorte toccata ai loro compagni, scampati al disastro aereo e poi venir subito dopo sbranati dai lupi. Tranne uno di loro che ancora crede nella “fiaba” dell’esistenza di un Onnipotente, per gli altri c’è un unico destino certo, quello del “vuoto” della morte. L’unica cosa che conti è quel poco di affetti familiari, la moglie, i figli, che si è riusciti a raccogliere durante la propria esistenza.
Anche Ottway ha una sua soluzione per continuare a vivere: si vuole preoccupare solo di ciò che è reale: il freddo, la minaccia dei lupi, il resto non conta. In una drammatica scena finale, Ottway alza gli occhi al cielo e inizia una invettiva contro Dio che ho poco da spartire con il lamento di Giobbe; le sue sono espressioni offensive con le quali Lo incita a fare qualcosa ora, subito, perché “la fede te la devi guadagnare”.
Nell’ultima battaglia con i lupi (non riveliamo il finale) Ottway declama una poesia che gli aveva insegnato suo padre: ““Ancora una volta in lotta nell'ultima battaglia che conti, di cui ho mai saputo. Vivere e morire in questo giorno..”.
Il suo atteggiamento in questa sequenza finale chiarisce il significato di fondo che si è voluto dare a questo racconto di lotta impari con le forze della natura. Siamo lontani dalla balena bianca del Moby Dick di Herman Melville, simbolo del male da contrastare; a Ottway non interessa il bene o il male, visto che Chi sta lassù non ha alcun interesse per i nostri destini; ci troviamo piuttosto nelle vicinanze di Ernest Hemingway, nel suo intento di circoscrivere la vita entro la cerchia di regole fisse stabilite da noi umani, lontane dall’imperscrutabilità del cosmo.
Sono le regole che presiedono alla tauromachia, alla caccia, alla guerra oppure, come in questo caso, alla lotta per la sopravvivenza: “ancora una volta in lotta per l’ultima battaglia”.
DARK SHADOWS


Inghilterra, 1750. Joshua e Naomi Collins, insieme al giovane figlio Barnabas, salpano da Liverpool per iniziare una nuova vita in America. Venti anni dopo, Barnabas è il padrone della città di Collinsport, nel Maine. Ricco, potente e incallito playboy, Barnabas commette però un errore: spezzare il cuore di Angelique Bouchard, una strega nel vero senso della parola, che lo condannerà a un destino peggiore della morte. Lo trasforma infatti in un vampiro e poi lo seppellisce vivo. Due secoli dopo, nel 1972, Barnabas viene inavvertitamente liberato dalla sua tomba e scopre che il mondo è decisamente cambiato. Inoltre, tornato a Collinwood Manor, la sua grande proprietà di un tempo, scopre che è caduta in rovina e che i suoi discendenti, ognuno con i propri oscuri segreti, fanno parte di una famiglia disfunzionale...
Tim Burton continua a indagare sul mistero della morte, questa volta in modo molto leggero e in una confezione elegante
Il conte Dracula nasce in Europa, nella seconda metà dell’Ottocento. Ma per diventare davvero il conte Dracula, l’unico Signore, il Re incontrastato dei morti viventi, delle creature della notte assettate di sangue, deve trasferirsi nella nuova Europa, l’America. Questo assunto è visualizzato, in maniera impeccabile, nell’entusiasmante apertura di “Dark Shadows” di Tim Burton. Dalla modernissima Inghilterra, patria della rivoluzione industriale, salpano i Collins. Devono raggiungere la Nuova Inghilterra, nel Maine, per impiantare una moderna fabbrica per la lavorazione del pesce.
Faranno fortuna i Collins. Diventeranno ricchi, straricchi. La città dove si sono insediati addirittura porterà il loro nome (Collinsport). Lì decideranno di costruirsi un grande, meraviglioso castello: un pezzo della loro radici, trapiantato nella nuova terra. Il figlio ed erede della famiglia, Barnabas (Johnny Depp), ha tutto. Ricchezza, potere, fama, bellezza. S’innamora di una splendida fanciulla, Josette. Ma ha commesso l’errore (involontario) di intrattenersi con la domestica, Angelique. La ragazza lo adora sin da bambina. Da sempre ha g posto su di lui il suo sguardo protettivo e passionale. Non vive che per lui. E non sopporta il tradimento. Per fargliela pagare si trasforma in una strega, dai poteri malefici e assoluti. Prima uccide i genitori di Barnabas; poi spinge al suicidio Josette, infine condanna l’amato in un morto vivente, un vampiro, che imprigiona, ben incatenato, in una bara, seppellita in una fossa profonda. Pratica chiusa? Certo, per un bel po’ di tempo. Sino al 1972.
Lavori di scavo rendono finalmente la libertà al vampiro. Barnabas è stato uomo, ma non ha potuto mai sperimentare il dolore e la disgrazia della vita alla quale è stata sottratta la morte. Dopo quasi duecento anni si ritrova spaesato e frastornato negli effervescenti e trasgressivi anni Settanta. Barnabas vede una grande scritta luminosa, a forma di M, e la scambia per il sigillo di Mefistoele. Ma è solo l’insegna di un McDonald’s. Tornato al castello degli avi, lo trova diroccato. La famiglia è ridotta sul lastrico, soppiantata dall’intraprendente e spregiudicata concorrenza di Angie (reincarnazione di Angelique), bella, aggressiva, ostinata a cancellare ogni traccia dei Collins da Collinsport. Adesso gli elementi ci sono tutti. Come il Conte di Montecristo, Barnabas dovrà dare battaglia. Una battaglia spettacolare.
Non sempre a Tim Burton i film riescono, anche se gode di fiducia, spesso illimitata e soprattutto indiscutibile, fra il nutrito esercito di ammiratori, semplici spettatori o interpreti di varia originalità. “Dark Shadows” è un piccolo gioiello, carico di leggerezza e buonumore, qualità formali e spettacolarità. Basato su una fortunata serie televisiva andata in onda sul finire degli anni Sessanta (quando alle serie televisive mancava la finezza narrativa di oggi), il film di Burton si riallaccia al filone “sempreverde” dei vampiri, in voga sin dalle origini del cinema, e che con la saga di “Twilight” negli ultimi anni ha conosciuto una fortuna commerciale mostruosa.
Se in “Twilight” i vampiri hanno il fascino dell’adolescenza, in “Dark Shadows” posseggono quel tanto di strampalato, irriverente, sconclusionato (ma divertente) della famiglia Addams, rimodellata sull’estetica pop e kitsch degli anni Settanta, incarnata dalle lampade con le bolle rosse galleggianti, la copertina rossa e blu di “Love Story” di Eric Segal, i capi di vestiario, ricchi di velluti dalle tonalità viola e bordeaux, indossati dai dandy a passeggio nella Swingin London. A tutto ciò viene aggiunta una colonna sonora d’epoca, a tratti spettacolare. E, su tutto ciò, regna sovrano Johnny Depp. Il vampiro (ad oggi) più fico della storia del cinema.
DYLA DOG - IL FILM


New Orleans. Un collezionista di monili antichi muore in circostanze misteriose e sua figlia, che la notte del delitto ha scovato un lupo mannaro in casa, chiede l’intervento di Dylan Dog, “l’indagatore dell’incubo”. Il detective, che sulle prime rifiuta di investigare (ha giurato di smetterla col paranormale da quando un consesso di vampiri gli ha ucciso la fidanzata), accetta di rimettersi al lavoro quando capisce di essere il solo a poter fermare una guerra in corso tra i “non morti”, che potrebbe presto coinvolgere tutto il genere umano.
Un vero delitto questo film che ha perso l'occasione di far conoscere questo famoso eroe del fumetto italiano agli americani: il problema non è solo la modestissima qualità dell'opera, ma l'aver tradito il personaggio Dylan Dog, che ora è diventato un muscoloso superman di serie B
“Potrei leggere la Bibbia, Omero e Dylan Dog per giorni senza annoiarmi”. È rimasta celebre quest’affermazione di Umberto Eco, che attribuiva il successo della popolare serie a fumetti alla sua “sgangherabilità”. Sgangherabili, secondo Eco, sono quei testi che si possono scorporare in porzioni memorabili – da leggere autonomamente o da citare fuori contesto – come per esempio l’opera di Shakespeare o la Divina Commedia. È sgangherabile per costituzione il cinema che, analogamente al fumetto, è costruito attraverso il montaggio e che, pertanto, può essere facilmente smontato e gustato a pezzi (si pensi al proliferare su YouTube di singole sequenze, a volte brevissime, di film più o meno famosi).
Non è affatto sgangherabile, invece, perché non ha niente di memorabile, questa rivisitazione americana della serie. Le speranze di conquistare Hollywood da parte del fumetto italiano (che pure lo meriterebbe, per la ricchezza di personaggi e di storie della nostra produzione editoriale) andranno riposte altrove. Chi ha acquistato i diritti cinematografici di Dylan Dog, infatti, ha trasformato un fumetto colto, ironico e ricercato in un film che strizza l’occhio a un pubblico di adolescenti di bocca buona (e sull’equivoco dell’operazione basti dire che il regista a cui è stato affidato l’adattamento ha come unico precedente un film sulle Tartarughe Ninja). Per stare al passo coi tempi, tra l’altro, gli sceneggiatori non hanno pensato a niente di più originale che a una guerra tra vampiri e licantropi, con l’intento evidente di alludere a saghe di successo di questi ultimi anni (Underworld, ma anche Twilight), ma il tono non è diverso, piuttosto, da quello di telefilm come Buffy – L’ammazzavampiri. Altro che Omero, Shakespeare e Dante...
Non ad altri, se non a un pubblico televisivo senza grosse pretese, difatti, può rivolgersi questo Dylan Dog: se non si è fan dell’horror, certo non si va a vedere un film con mostri, zombie e demoni in libera uscita. Se invece si è patiti del genere, si pretende molto più che brividi a basso voltaggio e umorismo macabro di seconda mano. Il film non spaventa, non inquieta, contiene la violenza entro limiti accettabili e la tensione ben sotto il livello di guardia, ma un horror che non fa paura è come una commedia che non fa ridere: inoffensivo ma sostanzialmente inutile. Neanche s’illudano i fan del fumetto, che vedranno inesorabilmente tradite le loro aspettative per via di scelte molto discutibili che banalizzano il complesso universo narrativo creato da Tiziano Sclavi. Il tradimento più grave, a nostro parere, è stato quello di trasformare un eroe vulnerabile e anticonvenzionale in un fusto dal bicipite a tenuta stagna che quando picchia fa male e quando spara fa sempre centro, esattamente il contrario di un personaggio atipico (e per questo così amato) come Dylan Dog, di cui il suo inventore ebbe modo di ammettere: “in fondo non sembra neppure un eroe da fumetto”.
Ma anche senza il paragone con il precedente di carta, il protagonista di questo film è di per sé poco interessante e con una psicologia banale, come rivela paradossalmente la battuta di un vampiro che gli dice: “voi umani siete così prevedibili: si tira un filo e alzate una gamba, se ne tira un altro e premete il grilletto”, situazione ben incarnata dal monocorde manichino Brandon Routh, che proprio non riesce a dismettere la faccia da Superman qualunque altra parte reciti.
LA LEGGENDA DEL CACCIATORE DI VAMPIRI


Abraham Lincoln, sedicesimo Presidente degli Stati Uniti, scopre che i vampiri stanno architettando di impadronirsi del suo Paese. La sua missione sarà eliminarli...